Scene di lotta di classe per un panino a Milano

 

«Come si arriva a Broadway’? Vorrei andare dove accadono le cose. ‘
– Allora vada per un isolato verso est, svolti per Broadway e se cammina abbastanza a lungo arriverà proprio dove accadono le cose. ‘
– Grazie.»

(John Dos Passos – Manhattan Transfer)

 

Tra le paure e le speranze di questa incertissima fase 3, Milano (e Londra e New York e San Francisco) si sono trasformate inconsapevolmente nel campo di battaglia per una lotta, la chiameremo “la guerra del panino”, che ha in palio nientemeno che il futuro del capitalismo.

Non inganni il riferimento alimentare, ché la faccenda è piuttosto seria e gravida di conseguenze non solo per le città, ma per il futuro del lavoro e dunque del benessere “sano” dell’Occidente.

Il tema, che comincia ad affiorare in qualche analisi preoccupata, sono le conseguenze sul motore delle metropoli (che fa tremendamente fatica a girare e regimi bassi e deve sempre fare succedere le cose per non spegnersi) di alcuni cambiamenti post-Covid nell’organizzazione del lavoro e dell’economia, in particolare quelli legati al prolungamento a tempo indeterminato del lavoro a distanza. Quello del lavoro e del suo indotto non è l’unico problema delle città post-Covid, ma rischia di essere quello più strutturale e gravido di conseguenze.

I turisti torneranno, e in parte sono già tornati, ad affollare le città d’arte e per l’economia del turismo la pandemia sarà stata una bruttissima nottata da cui svegliarsi acciaccati (e servono sostegni concreti) ma ancora vivi.

Dall’altra parte oggi il vero punto di domanda riguarda invece le conseguenze della corsa impetuoso delle imprese di servizi a prolungare e in alcuni casi a rendere strutturale il telelavoro (anche nella versione nobile dello smart working).

Essendo la coperta sempre maledettamente corta, questa gara a lasciare a casa i propri dipendenti il più a lungo possibile, anzi a lasciare proprio le sedi fisiche in favore della rete, sta aprendo delle voragini nel tessuto connettivo e nell’economia delle metropoli, che attorno all’afflusso e alla mobilità delle persone attive nei servizi hanno costruito la loro fisica e la loro prosperità.

Ogni dipendente che da una qualsiasi Vimodrone del mondo non è più richiesto di venire 5 giorni su 7 in una qualsiasi Milano del mondo si porta dietro una palla di neve di conseguenze per chi gli vendeva un panino a pranzo, l’aperitivo dopo lavoro, la palestra per smaltire i primi due e così via, per non parlare del suo ufficio, destinato a rimanere a lungo desolatamente vuoto, meno pulito, meno guardato, meno richiesto, meno valutato.

Nulla quaestio se questo fosse semplicemente la conseguenza temporanea della pandemia, sincera preoccupazione se invece, come temo, il Covid avesse fatto da acceleratore a processi di riorganizzazione del lavoro e della produzione di valore, le cui conseguenze, una volta uscite dal vaso di Pandora, potrebbero essere esiziali.

Per il lavoro, dove rischiano seriamente di radicalizzarsi processi di precarizzazione. Io sono un grande sostenitore e praticante dello smart working e del lavoro nomade, ma quello che vedo è principalmente altro, ossia un salto quantico nella possibilità di risparmiare costi fissi da parte delle imprese e chissà cos’altro domani. Che un’azienda quotata come Pinterest accetti di pagare 89,4 milioni di dollari per disdettare l’affitto del suo nuovo headquarter di San Francisco senza che il suo CEO venga defenestrato dal medesimo palazzo fa pensare, innanzitutto che i risparmi programmati siano ben più rilevanti della spesa. Che questi fenomeni accadano mentre incombe lo spettro della sostituzione del capitale umano con gli algoritmi personalmente inquieta. Il movimento operaio e la democrazia contemporanea sono nate anche grazie agli assembramenti di lavoratori nei medesimi luoghi e, per quanto questi concetti possano essere datati, la compresenza fisica è utile tanto per la produttività, quanto per un sano work life balance, tanto per la difesa dei diritti. Questo soprattutto laddove le scelte di telelavoro permanente non rispondono a criteri di miglioramento produttivo, ma di risparmio di costi. I lavori che David Graeber chiamava “bullshit jobs”, e in generale quei lavori nei servizi anche avanzati ad altissimo tasso di sostituzione tecnologica, in un contesto di crisi economica e completamente destrutturato fisicamente rischiano di poter essere o ulteriormente precarizzati o terminati come si chiude un account, senza nemmeno l’impatto visivo degli scatoloni dei broker della Lehman Brothers. Nella melassa retorica dello smart working tutti sognano una grande casa di fronte al mare dove lavorare negli agi di uno stipendio milanese con i costi della vita siciliani, ma la realtà potrebbe essere un po’ diversa per molti. Se stai a casa tua a lavorare non è detto che CFO e capi del personale ebbri di risparmi e riorganizzazioni non inizino prima o poi a guardare con libidine ai vostri buoni pasto come prossimo oggetti di taglio.

Per le città, perché la riorganizzazione produttiva di grandi datori di lavoro soprattutto dei servizi significa palazzi vuoti e indotto in ginocchio. Chi ostenta tranquillità con il futuro degli altri dice già che si tratta di un cambiamento certo epocale, ma che ci si inventerà qualcos’altro. Sarà sicuramente così, ma oggi tocca fare i conti con quello che rischia di non esserci più, anche dopo il vaccino per il Covid. Se la riorganizzazione degli spazi a scopi esclusivamente finanziari va a braccetto con l’evoluzione tecnologica, che già permette ovviamente il lavoro a distanza, si crea un Golem che modificherà seriamente l’organizzazione delle città e la loro economia. Per soprammercato, un discorso in parte analogo può essere fatto per le università (studenti fuori sede che quest’anno non rientreranno e domani potrebbero trovare un’offerta formativa organizzata diversamente, magari una Bocconi bis in Puglia). I grandi edifici, alcuni appena costruiti, rischiano di fare presto l’effetto di quelle caserme abbandonate in molte città italiane, delle quali non si sa che uso fare perché troppo grandi e perché mancano le risorse per riqualificarle. Nulla che non si sia visto, e soprattutto le città sono da sempre grandi stomaci che digeriscono anche i sassi, ma i tempi possono essere lunghi e il disallineamento/riallineamento può essere foriero di tensioni difficili da governare.

Le città diventano così il campo di battaglia per governare (sapendo anche contrastare) le tendenze più nichiliste del capitalismo finanziario, che la fase post-Covid rischia seriamente di liberare. La “guerra del panino” è innanzitutto questo.

È il caso di Milano, che si sta risvegliando dal lockdown molto fragile e confusa sul da farsi. Il governo di Milano ha gestito negli ultimi 10 anni con “compassionate progressivism” un ciclo fortemente espansivo. La crescita della città secondo tutti gli indicatori ha incontrato il riformismo lombardo permettendo lo sviluppo immobiliare più impetuoso, badando però che sotto i grattacieli ci fosse un parco pubblico. Ha trasformato la città in un eventificio (e tutti arrivavano a Milano rimanendo a bocca aperta e noi milanesi eravamo orgogliosi di mostrare a tutti il nostro miracolo), facendo al contempo cose rilevanti per le periferie e ponendosi il problema del ritorno della manifattura contemporanea come lavoro buono per il ceto medio. Milano è stata per anni the place to be, il luogo dove accadono le cose in Italia e per questo si accettava serenamente di pagare affitti insensati perché gli affittuari dovevano rientrare dell’investimento.

Oggi se si spegne il motore delle città in attesa di riaccenderlo fra chissà quanto e chissà come, se le cose smettono di accadere, o comunque più realisticamente lo faranno in tono molto minore per molto tempo, si aprono scenari complessi. Soprattutto si potrebbe tornare al novecentesco “conflitto”, che il decennio espansivo aveva definitivamente spazzato via dall’agenda politica soprattutto dei progressisti, mentre dall’altra parte un vasto fronte culturale si organizzava per evocare e alimentare questo conflitto, con nessuna fretta e intenzione di risolverlo.

Rischia di generare conflitto il lavoro che mancherà nei servizi, il mercato immobiliare che rifiuta di capire che i tempi sono cambiati, persino alcune scelte radicali di ciclabilità che, lo dico da ciclista, avrebbero necessitato di una certa tranquillità d’animo per essere metabolizzate dai più scettici.

Il conflitto obbligherà a scelte e le scelte non faranno tutti felici. Se ieri il developer immobiliare ha speso con piacere i soldi per lo spazio pubblico, un infinitesimo di quanti ne ha fatti vendendo i propri grattacieli a tycoon, russi e calciatori, domani potrebbe fare la faccia feroce o salutare. Le migliaia di piccoli proprietari immobiliari storceranno il naso alla prospettiva che la rendita del loro investimento sia destinata a stagnare o a crollare. Soprattutto le persone cercheranno lavoro, non lo troveranno o non lo troveranno della qualità che si aspettano (Milano è la capitale italiana della “classe disagiata” di Raffaele Alberto ventura) e cominceranno a guardare al costo della membership milanese come un peso più che come il prezzo da pagare per essere nel groove. Sta già succedendo a molte persone che conosco, tra cui me stesso.

Gli appelli del sindaco Sala a tornare a lavorare in ufficio, dunque a mangiare il panino a pranzo, andare in palestra, consumare beni e spazi, rientra oggi più nella categoria dell’ammissione di difficoltà che in quella della soluzione. Soluzione che oggi probabilmente non c’è, anche perché il conflitto del panino va molto oltre le sorti di Milano e si limita ad attraversarla come scenario della battaglia tra un capitalismo finanziario cattivo che prende, usa e lascia come i marinai, e la flebile resistenza delle comunità sedotte e abbandonate. Comunità che oggi non sanno bene che pesci pigliare e dovrebbero invece saperlo, perché i soldi per i mille bonus promessi non basteranno a tappare i buchi. Forse si potrebbero provare a testare seriamente alcune idee di ricostruzione di comunità, di ritorno alla manifattura urbana edi housing sociale con le quali ci si è baloccati come “nice to have” mentre tutto andava a gonfie vele. Non basteranno ad arginare il conflitto, ma almeno possono essere un punto di partenza.

Un mio caro amico, molto più intelligente e colto di me, al quale ho espresso i timori che qui ho messo nero su bianco ha detto che sono troppo pessimista e che le cose si aggiusteranno prima e meglio di come penso io. Spero sinceramente abbia ragione. Nel caso contrario, si vis pacem, para bellum.