E se il Covid fosse il nostro Titanic? (preoccupiamoci e torniamo a studiare)

Qualche giorno fa il Presidente della Liguria Giovanni Toti ha detto una cazzata.

Capita, di dire una cazzata. Capita anche, se si è un politico conosciuto, che questa cazzata formi una palla di neve che rotola per un paio di giorni a valle.

Anche se la cazzata in sé è, sine ira et studio, poca cosa, voce dal sen fuggita di un social media manager che regge male la pressione e che era assente il giorno in cui la maestra ha spiegato come fare i riassunti.

Un ragionamento di quelli che abbiamo sentito a tonnellate, e dimenticato per irrilevanza, sulla necessità di proteggere i pensionati è diventato sotto le forbici dell’incauto comunicatore una dichiarazione di erodismo al contrario: i non più produttivi sono sacrificabili.

No big deal, se non fosse che la gaffe di Toti apre, in un periodo di smarrimento, una finestrella come quelle sul mare di Boccadasse su altro.

È, scomposta nelle sue materie prime, l’involontario segnale di un malessere non transeunte, di una crisi grave, sistemica, nella quale alcune delle componenti primarie della nostra civiltà hanno all’unisono smesso di funzionare come si deve, o almeno come ci aspettavamo funzionassero.

È possibile che dietro le cazzate twittate da Toti e dai mille Toti dell’élite occidentale in tempo di Coronavirus si spalanchi l’abisso di un nuovo Titanic?

Quando mi riferisco al Titanic parlo di un evento, lo descrive benissimo lo storico Emilio Gentile, di straordinaria valenza simbolica, tale da trasferire il senso di fine di un’epoca. Lo fu nel 1912 il Titanic per la Belle Époque e la sua fede nel progresso, lo è il Covid per quello che rischia di essere il “Secolo brevissimo” della globalizzazione spinta e del massimo dispiegamento della geometrica potenza della razionalità digitale non tanto come dato di fatto, ma come mistica.

Facciamo una check list di quello che il di per sé insignificante Toti-affair ci racconta:

Governo e autorità nella democrazia liberale: su e giù per li rami di tutti i governi elettivi di tutti i Paesi democratici (che non siano isole sigillabili), il Covid ha sparso generose dosi di precarietà. Al di là delle episodiche e pochissimo affidabili ricostruzioni della stampa, pressoché tutti i governi si sono fatti cogliere impreparati non solo dalla prima ondata, ma anche dalla seconda. Sia chi ha fatto lo stupido per compiacere i suoi sostenitori più rozzi, sia chi ha preso immediatamente le cose sul serio, hanno tutti sostanzialmente fallito nel proposito di garantire attraverso le misure del governo sicurezza dal disastro, o quantomeno di limitarne conseguenze. Il dibattito politico in costante diretta social ha fatto emergere costantemente l’improvvisazione, le meschinerie, la piccola ricerca di visibilità e di tornaconti in termini di consenso personale e di parte, se non la sensazione inquietante che chi era in cabina di pilotaggio non sapesse cosa fare. Un po’ come quando da bambini si è esposti ad alcune manifestazioni non lodevoli dei nostri genitori, siamo costretti a vedere cose perfettamente normali, ma che ci saremmo risparmiati volentieri. La stampa ha avuto più volte vita facile nel comparare il disastro delle decadenti democrazie occidentali con le immagini di inusitati assembramenti di gente oggi senza mascherine a Wuhan, dove la dittatura cinese ha disposto come meglio ha ritenuto tanto delle informazioni sul virus prima, quanto soprattutto delle vite dei cittadini dopo. Non è stato un bel messaggio, come non lo è mai nessun messaggio che suggerisca che con meno libertà e meno rappresentanza si possono risolvere meglio i problemi seri. Dopo il Covid guarderemo alle élite politiche occidentali con gli stessi occhi di prima?

Media: non credo più da anni alla funzione pedagogica dei media, ma continuo a pensare che dovrebbe esserci una differenza fra un grande quotidiano e una pagina Facebook e tra la proposta di informazione di una televisione mainstream e un canale Youtube. Per ragioni alcune comprensibili, che vanno dall’esigenza di mettere un po’ di pepe al dibattito al piacere sadico di assistere al combattimento degli schiavi di “Djiango Unchained”, i media hanno attivamente corroborato e ingigantito ogni flatus vocis, ogni verità alternativa, ogni ricostruzione dissonante, ogni fonte di casino. Quasi tutti hanno con volgare cinismo scovato mostri, li hanno nutriti e ingigantiti, spinti nell’arena, buttati via quando non servivano più. Con finta innocenza e nessuna responsabilità (fosse anche un editoriale del direttore responsabile che desse la linea) hanno giocato con negazionisti, riduzionisti, categorie economiche che dicevano “perché io?”, numeri grandi ed elastici come il pongo. Hanno inflazionato l’ego e la presenza degli scienziati, trasformando la possibilità di capire meglio cosa stesse succedendo in un derby, nel quale o sei in campo o puoi solo tifare. Io per la cronaca tifo Galli, perché è un signore pacioso, milanese, interista e di sinistra. Ma capisco anche chi ha il BMW/Porsche, è juventino/milanista e tifa Bassetti/Zangrillo. E forse allora capisco anche chi, disperato, tifava Di Bella. Dopo il Covid guarderemo ai media con gli stessi occhi di prima?

Scienza e scienziati: prima di questo incubo, come borghesi well-to-do eravamo impegnati in una battaglia per riaffermare il ruolo della scienza e degli scienziati di fronte a una crisi di autorità dei competenti che si andava espandendo. Per reazione ai No-VAX, ai Vanoni e ai negazionisti climatici, si è costruita attorno alla scienza e agli scienziati una gabbia di aspettative, alcune addirittura fanatiche, che ha obnubilato ogni componente politica, di dubbio e di umana fallibilità. Oggi che sono presenti quotidianamente su tutti i media, che rilasciano interviste e dichiarazioni anche quando non hanno nulla da dire, che litigano come politici di secondo piano nei talk show, di molti dei virologi e c. percepiamo innanzitutto la iattanza e quel minimo di violenza di chiunque parli ex cathedra, non mitigata dal possedere la chiave del sapere che consentirebbe di uscire da questo casino. Non c’è? Probabilmente non è così semplice. La scienza è anche politica e consenso? Molto probabilmente. Di sicuro la scienza si è caricata nella cultura popolare di aspettative che di fronte a questa prova si sono sgretolate. Dopo il Covid guarderemo agli scienziati con gli stessi occhi di prima?

Tecnologia: mi guadagno da vivere con l’innovazione tecnologica ma mi reputo abbastanza libero e onesto intellettualmente per ritenere che sia proprio la tecnologia, o meglio il sistema di aspettativa in essa riposto, la principale vittima del Titanic Covid-19. In primo luogo, la potenza di calcolo esponenziale e tecnologie come l’IA non hanno all’apparenza avuto l’impatto che ci si sarebbe attesi sulla capacità di prevedere quantomeno la seconda ondata e di intervenire efficacemente in aspetti come il tracciamento. Nel 2020, l’andamento del Covid e l’impatto sulla società (per fortuna non la mortalità) ricordano troppo quelli della Spagnola di un secolo prima e ci si aspettava di più dal molto che è successo in mezzo. In secondo luogo, mi riferisco a esperienze vissute, ormai oltre un decennio di lavoro sulle tecnologie per l’esperienza utente, la gamification delle informazioni, l’utilizzo dei dati personali per scopi commerciali e di controllo non hanno consentito di realizzare piattaforme informative sul come comportarsi in caso di problemi Covid correlati che andassero oltre le circolari, ministeriali o regionali. In terzo luogo, dalla didattica a distanza allo smart working, siamo ancorati a un dibattito stucchevole tra tecno entusiasti e tecno dubbiosi che il più delle volte, con la sorridente superficialità che è il brand della Silicon Valley, non tiene conto di alcun aspetto sociale, culturale, sindacale e politico. È innegabile che sia meglio fare il lockdown con Netflix sull’Ipad che con Snake sul Nokia 3310, ma sinceramente dalla tecnologia mi aspettavo molto di più. Sicuramente, la tecnologia non è in sé risolutiva ma va governata, e a governarla non possono essere solo venditori e mercanti di ottimismo e di piattaforme. Dopo il Covid guarderemo al digitale con gli stessi occhi di prima?

Come se ne esce? In un saggio assolutamente da leggere, Raffaele Alberto Ventura dice molto male, forse in un regime diverso da quello della democrazia parlamentare che conosciamo. Io più ottimisticamente dico tornando a studiare, ossia a porsi delle domande e a riflettere sulle conseguenze di fenomeni dirompenti come la pandemia sul nostro corpo, fisico, psichico, sociale, culturale ed economico. Studiare e riflettere anche perché le coperte del passato si sono sfilacciate in parte irrimediabilmente, e non ci proteggono (o soffocano) più.

Tra le tante cose incerte, quello che è certo è che questo disastro abbia rotto inerzie e meccanismo consolidati, modi rituali di fare le cose, sistemi di aspettative, relazioni e gerarchie. In favore di cosa? Questo non lo sappiamo, e se non ci occupiamo di capirlo rischiamo seriamente di ritrovarci con una balcanizzazione sociale ed economica difficile da governare.

Non sappiamo come l’economia si aggiusterà di fronte a un doppio congelamento, come camperanno i lavoratori sconfitti dalla guerra del panino, come si riempiranno gli spazi vuoti nelle città, come impareranno i bambini piazzati davanti a un video, come socializzeranno gli adolescenti ai quali sono impediti i contatti sociali, cosa penseranno le persone a bagno per un anno in un concentrato di solitudine, ansia, preoccupazione. Non sappiamo un sacco di altre cose che pure stanno accadendo.

La disponibilità di risorse, anche consistenti come dovrebbero essere quelle del Recovery Fund, non sarà tale da risolvere ogni problema. Soprattutto, non ogni problema sarà monetizzabile, non ogni conflitto digitalizzabile.

Per questo penso che alla monetizzazione e alla digitalizzazione per ricostruire si debba affiancare uno spazio di riflessione sulle trasformazioni violente della nostra società e della nostra economia che dovrà necessariamente recuperare un’idea di maggiore profondità (rispetto al tempo compresso dell’elaborazione digitale) e un approccio culturale umanista (rispetto al meccanicismo delle scienze dure). Che si torni a utilizzare il sapere sociologico, filosofico, storico, antropologico, psicologico più vicino alla sala macchine, per riconoscere cittadini e istituzioni che saranno forse molto diversi e peggiori di quelli pre mascherine.

Non il governo dei filosofi, ma nemmeno la dittatura dei ragionieri e degli ingegneri, che può andare bene a fare andare la barca veloce, molto meno quando affonda.