Come rendere l’IA a misura di PMI? È una domanda che cresce, come cresce l’attenzione per l’Intelligenza Artificiale e l’hype per i suoi impatti, ancora molto potenziali. Per passare dalla potenza alla realtà, è necessario esattamente capire come un sistema ricco e complesso, ma polverizzato, come il nostro sistema delle imprese potrà effettivamente beneficiare di una tecnologia così potente, ma dalle reali applicazioni ancora in corso di definizione e di confronto con il mercato, principale giudice del successo di ogni innovazione.
Lo scorso fine settimana a Venezia ho partecipato a “StrAIght to business”, una due giorni dedicata all’Intelligenza Artificiale nella sua declinazione più concreta, rivolta cioè alla risoluzione di problemi e alla crescita della competitività delle imprese attraverso l’innovazione digitale. Grazie al confronto fra imprese e studenti, attraverso la metodologia del Design Thinking e con la guida di Upskill 4.0 ed Ennova Research, le potenzialità dell’intelligenza artificiale per le imprese sono state indagate e chiarite con straordinaria efficacia. Finalmente, si è parlato di tecnologia e business al di là della retorica ancora troppo prevalente, focalizzata sull’effetto “wow” e poco interessata, e capace, di fare seguire allo stupore l’innovazione, mediando le potenzialità assolute del digitale con la realtà, i bisogni e i vincoli delle imprese.
Concentrarsi sull’applicazione della tecnologia ai contesti reali per migliorarli, il significato reale di “innovazione”, non serve solo alla società e alle imprese, che dall’innovazione possono e devono essere investiti, ma anche a chi la tecnologia la sviluppa, la racconta e la vende. Serve per essere non solo più seri, non siamo con tutto il rispetto in una fiera di paese, ma anche per essere più efficaci ed evitare “l’effetto Gartner”, ossia la riduzione di molte tecnologie anche potenti e importanti a bolle mediatiche e finanziarie.
L’Hype Cycle è un modello di analisi del ciclo di vita delle tecnologie digitali, sviluppato dalla società di consulenza Gartner Group, che analizza le dinamiche di diffusione di una tecnologia digitale secondo un pattern consolidato. Con la messa sul mercato, ogni tecnologia è investita di poteri miracolistici: cambierà il mondo (o una sua parte) e con queste premesse attira investitori, intercetta fondi pubblici, da vita a un’ondata di start up, convegni, prodotti, vende anche qualcosa ai più curiosi. Quanto più la tecnologia è stata investita di potenzialità rivoluzionarie, e quanto meno ci si è concentrati sulla domanda reale, tanto più queste aspettative gonfiate generano delusione, e con questa anche freddezza nei confronti delle soluzioni, comprese quelle davvero possibili e utili. Alcune tecnologie muoiono così, schiacciate da peso delle aspettative, altre si riprendono e tornano sul mercato, più realisticamente collocate all’interno di settori e funzioni importanti, ma necessariamente limitate. Gli NFT dovevano essere una miniera d’oro, e ragionevolmente non sopravviveranno alla delusione causata dal non esserlo, la blockchain oggi è inabissata e tornerà per un range più limitato di funzioni, la stampa 3D non ha generato un nuovo paradigma economico basato sull’autoproduzione, ma è una solidissima e imprescindibile tecnologia per la manifattura, ad esempio nella prototipazione. Nihil sub sole novi.
L’Intelligenza Artificiale ha dalla sua la straordinaria potenza e l’essere già dall’inizio una tecnologia embedded in strumenti e soluzioni di uso comune e quotidiano, business e consumer, poiché ormai sappiamo infatti che più una tecnologia occupa lo sfondo e permea le vita e più e prima diventerà insostituibile. Tuttavia non è esente dai rischi connessi appunto ad un eccesso acritico di hype.
Per questo serve la concretezza dei casi d’uso e il coraggio di provare a rispondere alla domanda “ma a me (ad esempio piccola impresa manifatturiera che lavora principalmente conto terzi) a cosa serve l’intelligenza artificiale?”, mediando la propria passione con la realtà del mercato, delle competenze, delle aspettative. Si otterranno risposte magari meno “wow”, ma certamente più solide e in grado di fare avanzare davvero, fisicamente, l’orizzonte del possibile e del certo, e che proverò di seguito a richiamare.
A meno di essere una start up o un’impresa nativamente tecnologica, o di possedere non comuni curiosità, competenze e disponibilità a investire per primi sull’innovazione anche a fronte di ritorni incerti, una “normale” PMI può incontrare l’Intelligenza Artificiale principalmente in tre modalità: come utente di servizi AI based, come componente di una filiera produttiva organizzata verticalmente, o come appartenente a un distretto produttivo.
Il primo caso è quello più semplice, quasi banale e “involontario”, e più diffuso: l’azienda utilizza le soluzioni “commerciali” di IA generativa, innanzitutto quelle integrate negli applicativi di uso comune, per efficientare processi non core, come inviare e-mail o comunicare con l’estero. È l’utilizzo in grado di “fare i numeri”, anche se un po’ alla Trilussa, in termini di tassi di adozione dell’IA (si pensi a quanto schizzerebbe in alto il numero di utilizzatori se Microsoft integrasse gratuitamente Copilot nella suite Office) e che richiede competenze più semplici. Bastano un figlio o un collaboratore un po’ smanettoni, magari un consulente, nemmeno necessariamente di alto livello. È il caso d’uso che consente al mercato dell’offerta di strutturarsi, anche senza voli pindarici: non si genera certamente innovazione “disruptive”, ma si creano posti di lavoro basati su competenze tecnologiche e le imprese si ammodernano, almeno nella comunicazione con l’esterno, sperando che da cosa nasca cosa.
Il secondo caso è quello in cui un’impresa più strutturata impone le proprie policy anche tecnologiche a cascata sul sistema dei suoi subfornitori, i quali per rimanere nella filiera devono investire anche in tecnologia. È il caso più di scuola, non solo per la diffusione dell’IA, ma per gran parte dell’innovazione tecnologica, perché consente un rapido dispiegarsi dell’innovazione, minimizzando le distorsioni e le perdite di tempo e facendo da subito “massa critica”. A tale proposito, l’esperienza dei casi d’uso di implementazione di soluzioni di IA generativa nel business comincia a restituire un solido cluster di esempi di applicazione basati sulla sistematizzazione e messa a disposizione rapida ed esaustiva di grandi basi di dati (ad esempio le specifiche tecniche di prodotto di vasti cataloghi) alla rete di vendita, ai clienti e appunto ai fornitori. Integrarsi all’interno di questi sistemi, che si giustificano solo laddove vi sia sufficiente massa critica di informazioni, come nel caso di aziende medio grandi e di filiere, è per le PMI non solo una necessità, ma anche un’opportunità già strutturata per innovare (e magari restare competitivi anche se cambiano le relazioni di subfornitura, ipotesi possibile in momenti burrascosi come l’attuale).
Il terzo caso è purtroppo il meno considerato, anche perché è il più complesso, ma al contempo il più promettente per un sistema produttivo pulviscolare come il nostro, e che non voglia “fare ordine” semplicemente disboscando la biodiversità delle imprese. Si tratta innanzitutto di spostare il focus dell’innovazione dalla singola impresa all’ecosistema nel quale è inserita non in virtù di rapporti formalizzati, come nelle filiere o nelle reti, ma per quel mix di vicinanza geografica e culturale e di interazione informale che hanno reso unici i nostri distretti, oggi in crisi. Si tratta di prendere atto che, in un salto di paradigma tecnologico, considerare e misurare le PMI come sistemi chiusi, che devono necessariamente innovare entro le proprie mura, è utile più al marketing delle tecnologie che alla comprensione e all’avanzamento dell’innovazione, o al massimo premia i più dinamici, senza però elevare il livello complessivo. Le PMI, ma anche le microimprese, all’interno di un distretto condividono una base di conoscenze, esperienze e relazioni che rappresentano uno straordinario, ancorché disperso, potenziale, che deve essere ordinato, innovato e valorizzato. Il distretto dovrebbe dotarsi di un “gemello digitale” AI based, in cui anche la conoscenza tacita possa diventare base per la competitività di chi opera all’interno, oltre che opportunità per far nascere nuova impresa e trattenere o richiamare talenti digitali, che oggi fuggono ma che sarebbero disponibili a tornare in contesti che riconoscessero (e remunerassero) l’importanza del loro contributo e delle loro competenze.
Questa terza opzione è come ho premesso la più complessa, perché richiama un lavoro di lima e capitali pazienti, oltre che un’integrazione tra politiche pubbliche e scelte private, tra amministrazioni, corpi intermedi, università e scuole, finanza e impresa. È anche però quella che, ribaltando il paradigma dal primato assoluto della tecnologia nel dettare tempi e modi all’integrazione, più lenta ma assai più efficace, tra opportunità tecnologiche e contesto di applicazione, offre maggiori potenziali. Di più, potrebbe costituire una via italiana alla diffusione dell’IA nelle imprese, favorendo la competitività dell’intero sistema produttivo.
L’università e la scuola avrebbero in questo contesto un ruolo fondamentale di motori di innovazione, soprattutto nei contesti della provincia e delle aree interne, dove insistono molti dei distretti. Sarebbe per loro anche una possibilità, forse l’ultima, di ridefinire il proprio ruolo di fronte alla concretissima minaccia di un ridimensionamento drastico in relazione a trend demografici inclementi.
Quanto visto a Venezia, non solo in termini di competenze, ma di energia e freschezza di sguardo degli studenti nell’integrare con naturalezza business case e tecnologia, dice che pensare un modello di innovazione originale, efficace e “nostro” (nel senso di italiano ed europeo) è possibile. Ora occorre mettersi al lavoro.