Sono un ciclista, padre preoccupato di un adolescente che si mangia la città in bicicletta come se fosse un paesino, non possiedo un’auto di proprietà da 4 anni e, per l’uso che faccio io della città, sto benissimo così. Da cittadino, ciclista e soprattutto padre, sto malissimo ad ogni incidente mortale, non ci dormo la notte e mi arrabbio tremendamente. Per il resto sono per una mobilità laica, che si cambia come i vestiti: bici muscolare di solito, elettrica se non devo arrivare sudato, mezzi pubblici se piove, car sharing se devo portare ingombri.
Per interesse personale, oltre che professionale (mi occupo da molto tempo di imprese artigiane del settore e partecipo attivamente al tavolo bike economy della CCIAA di Milano, che ha lanciato un bando per soluzioni tecnologiche proprio sul tema sicurezza), seguo dunque con attenzione il confronto pubblico sul tema, che riguarda una questione fondamentale come l’incolumità dei cittadini e un’altra questione anch’essa rilevante come il modello di sviluppo delle nostre città nel secolo della loro definitiva affermazione. L’intensificazione di questa attenzione, con il necessario pathos che accompagna eventi tragici come le troppe morti in bicicletta a Milano, solleva questioni da osservatore dei fenomeni di sviluppo e di governo della dimensione territoriale che ritengo debbano trovare sufficiente, pacato spazio di ponderazione. È necessario, anche perché la dialettica sulla mobilità urbana sta purtroppo seguendo molte delle dinamiche tossiche dei dibattiti sui social: polarizzazioni in bolle sempre più chiuse, contrapposizione frontale, speculazione politica, difficoltà a separare comunicazione e sostanza, mancanza di visione.
Milano è una città ciclabile? Per alcuni troppo, per altri troppo poco. Io pedalo anche a Roma, come ho pedalato nelle mitiche ciclovie di Parigi (per nulla friendly, piene di velocissimi ciclisti stressati come gli automobilisti) e nella Capitale d’Italia si vede cos’è una città che, nonostante abbia lo stesso colore politico della giunta comunale milanese, non è per nulla ciclabile. Penso che Milano lo sia abbastanza, meno di quanto comunica ma assai più di tutte le città grandi italiane.
Dovrebbe esserlo di più, dacché quella è la direzione in cui andare, essendo il superamento della mobilità automobilistica privata elemento acclarato di misura della qualità dello sviluppo urbano. Soprattutto dovrebbe esserlo “organicamente”, ossia non come superfetazione del suo percorso di sviluppo, nice to have comunicativo, ma come traiettoria che accompagna il resto, vi si lega. A tale proposito, ritengo sarebbe estremamente utile considerare, fare i conti, anche con tre dimensioni di cui sento poco parlare e che dovrebbero invece essere più attentamente considerate, insieme ai temi fondamentali dell’educazione stradale, dei limiti di velocità e della sensoristica sui mezzi pesanti. Le elenco a partire dalla più banale fino alla più complessa.
La più banale è che servono più vigili in strada: chi fa rispettare il codice della strada? Chi impedisce che auto sempre più assurdamente grosse e potenti vadano ben oltre i limiti? L’impressione è che ci siano troppi pochi “ghisa” dove servono.
Venendo alle cose più complesse, bisogna adattare la mobilità alla complessità della città, farne elemento organico e coerente: l’economia immateriale e dei servizi, fatta di persone e bit, può e deve muoversi in bicicletta, l’economia delle merci, del commercio e della manifattura, non può girare con la bicicletta, se non per l’eccezione delle cargo bike, che coprono una parte infinitesimale dell’esigenza di trasporto di una metropoli iper dinamica. Così dinamica da aver bisogno che quotidianamente mezzi di trasporto si muovano dall’esterno verso il centro, come le betoniere che servivano i cantieri e che sono state protagoniste di molte delle tragedie. Le città, in particolare le grandi città contemporanee, sono un sistema organico e straordinariamente complesso, a tratti persino contraddittorio, di sensibilità, istanze, bisogni: molti dei soggetti che si muovono in bicicletta nell’area B di Milano e che pienamente a ragione pretendono di farlo in sicurezza, sono qui perché partecipano in un modo o nell’altro del groove della città creativa e che si permette anche di stracciare il record di presenze turistiche in un mese, luglio, in cui si è sempre e solo pensato di scappare da Milano. Ma il dinamismo, di cui si ha così bisogno da aver cassato il remote working, impone una convivenza non semplice. Posso pedonalizzare Corso Buenos Aires, io ci sto, ma ho bisogno di pensare come rifornire i negozi che verranno presi d’assalto da chi si godrà la passeggiata in un altro pezzo di Milano conquistato alla sua fruizione lenta. Anche questi, i pedoni, le famiglie, le coppiette , sono però un pezzo, uno strato, della città che funziona solo se si amalgamano gli ingredienti e le esigenze, incluse quelle degli artigiani che vengono dalla Brianza a montare i serramenti alle case comprate come investimento e ristrutturate perché, diamine, un appartamento a Milano adesso è un assegno circolare. Se voglio governare, non rappresentare una nicchia di elettori, devo capire come far convivere gli strati, sapendo che Milano non è e non può essere Crema, né Trento: qualunque scelta dovrà rispettare una dinamica della città e dei suoi scambi, quello che la rende ciò che è, e che non può essere sottratta dall’algoritmo.
Nell’algoritmo entra anche la questione, ineliminabile per non essere grottescamente provinciali, della dimensione metropolitana delle politiche per la mobilità. Milano è attraversata quotidianamente da centinaia di migliaia di persone e non può non porsi il problema di come queste persone arrivano ai suoi sacri confini. La foto di copertina, della pista ciclabile di Viale Monza (che ha i suoi limiti, come li ha tutta l’urbanistica tattica) che esiste solo a partire da dove inizia Milano, è paradigmatica di politiche che non possono funzionare, perché sbagliate nella scala. Poi certamente Milano è Milano, è il birillo rosso e sta al centro, ma la città è troppo piccola e e settata sui consumi per immaginarsi autosufficiente e non un punto attraversato da infinite rette, molte delle quali si spostano con un mezzo a quattro o più ruote. Nella monocultura dell’auto era tutto più semplice, città e campagna si spostavano con gli stessi mezzi, oggi che fortunatamente la si sta superando le cose sono più complesse. Resta il fatto, lo si diceva già 15 anni fa nella Territorial Review dell’OCSE su Milano, che non sono pensabili politiche come quella sulla mobilità se non di area vasta, meglio molto vasta. Oggi paradossalmente la necessità di guardare fuori dall’ombelico comunale è ancora più cogente, anche e soprattutto come conseguenza del successo di Milano. Il progressivo allontanamento dei ceti popolari dalla città, frutto amaro del suo successo, ha accresciuto enormemente il numero di “migranti economici” urbani che cercano di entrare in città per studiarvi e lavorarvi, molti dei quali mortificati ulteriormente da un trasporto pubblico locale, soprattutto ferroviario, non degno della nostra regione. Come ci si muove per tornare dalle “-ate” in giro per la provincia dove sono stati confinati alla città per loro diventata inaccessibile non può essere ulteriore ragione di esclusione e marginalizzazione. Non devono questi per forza “venire in macchina” ovviamente, ma non si può fare finta che molti degli accessi a Milano dall’hinterland non sono ciclabili, che entrare è diventato molto più complesso e costoso e che ogni soluzione per essere seria va concordata con i sindaci dell’area metropolitana che sovrintendo a dove iniziano e passano gli spostamenti. Era questa una delle ragioni di esistenza delle vecchie provincie e oggi l’esigenza è ancora più forte per Milano, che si candida da tempo alla Superlega delle metropoli globali e se non ha nemmeno una strategia per la mobilità in comune con Sesto San Giovanni parte molto male.
Questo non giustifica minimamente quello che accade, l’ansia di chi vorrebbe semplicemente muoversi in città con il mezzo peraltro più adatto, lo stolido conservatorismo di chi ritiene la mobilità automobilistica privata un diritto inalienabile, non lo è, non più di quanto lo fosse muoversi con il cocchio un secolo addietro. Proprio perché è chiara la direzione, bisogna dunque lavorare su una visione e su soluzioni inclusive, che depotenzino il conflitto e che soprattutto rendano il percorso di Milano verso la modernità nella mobilità a prova di contingenze politico elettorali. Ritrovarsi di nuovo con le auto ovunque non farebbe bene a nessuno.