Quanto fanno male le piattaforme alla democrazia? “La macchina del caos” e la fine dell’illusione

Da qualche tempo, osservando il dibattito pubblico su pressoché ogni tema, dalle guerre alle scelte autonome di un istituto scolastico sul proprio calendario si ha la crescente, spiacevole sensazione di chiusura di ogni spazio di dialogo fra ragioni differenti.

Mentre le cose del mondo si fanno sempre più violente e più complesse, la loro comprensione, e soprattutto la socializzazione delle posizioni, che dovrebbe consentire la convivenza delle differenze, si va facendo sempre più sordamente polarizzata. Chi ha per età e formazione esperito momenti in cui si discuteva di cose non meno gravi e divisive con evidente maggiore serenità e attenzione, non può fare a meno di notare la differenza, e di temere per il costante deterioramento della qualità della democrazia.

Ogni tentativo di individuare una sola causa di questa palese involuzione, benché comodo, è certamente errato, ma è chiaro che l’impatto delle piattaforme di social networking, che hanno monopolizzato il dibattito pubblico, non può assolutamente essere sottovalutato. Anzi, la combinazione tra mezzo che da forma al messaggio ed evoluzione sempre più minacciosa del modello di business esponenziale delle piattaforme social, da strumento che collega il mondo a motore di oltranzismo e divisione ancora più acuta dello stesso, ha un ruolo preponderante nell’attuale imbarbarimento del dibattito pubblico, con conseguenze anche assai gravi.

È questa la tesi del libro “La macchina del caos. Come i social media hanno ricablato il nostro cervello, la nostra cultura e il nostro mondo” (Linkiesta, 2023) del giornalista inglese Max Fisher, un libro tanto rigoroso nella ricerca sul campo quanto spaventoso nei risultati. Per un impasto, mortifero, di subcultura tecno anarcoide ed evoluzione dei modelli di business verso una sempre maggiore “stickiness” (incollamento degli utenti al video) le maggiori piattaforme social, su tutte Facebook e Youtube, hanno scientemente dato spazio, anzi hanno incentivato la massima visibilità, a messaggi sempre più radicali, spesso falsi, e comunque divisivi.

Poiché l’odio, la riprovazione, l’ansia e il sospetto ingaggiano assai più dell’informazione e della riflessione, le piattaforme hanno attribuito spazio smodato a un freak show di fanatici di ogni risma, patenti balle gabellate per opinioni alternative, messaggi che hanno incarognito il dibattito pubblico, quando non hanno portato a conseguenze politicamente e socialmente assai più gravi.

Il prezioso lavoro di Fisher non è l’unico ad evidenziare la decadenza etica delle piattaforme di social networking, quella che Cory Doctorow ha chiamato “enshittification”, definendola così: “Ecco come muoiono le piattaforme, prima sono buone per i loro utenti; poi abusano dei loro utenti per migliorare le cose per i loro clienti commerciali; infine, abusano di questi clienti commerciali per recuperare tutto il valore per loro stesse”. L’interesse de “La macchina del caos” risiede però nell’organicità e profondità del lavoro di ricerca, e soprattutto nell’argomentazione secondo cui questa “enshittification” non è una conseguenza fortuita, ma il prodotto, si diceva, di ideologia e avidità.

Più interessante ai fini pratici è però l’espressione che Fisher utilizza nel sottotitolo, “ricablato”, che richiama una manomissione volontaria, o meglio una vellicazione malevola, di meccanismi che sovrintendono i nostri processi cognitivi e il funzionamento dei centri del piacere. Non solo le piattaforme e gli algoritmi che li governano hanno spinto perché le persone guardassero sempre più a lungo contenuti sempre più speziati di estremismo, ma hanno sviluppati meccanismi assai efficaci di retribuzione emotiva per la partecipazione attiva a queste spirali: hanno dato spazio smodato agli influencer del fanatismo e hanno contribuito a crearne di nuovi.

Il libro illustra le conseguenze di queste azioni deliberate, che nel caso di territori “vergini” come il Myanmar e Sri Lanka hanno prodotti conseguenze socialmente devastanti, veicolando e propellendo odî etnici (spesso basati su false informazioni lasciate liberamente circolare in rete) che hanno prodotti disordini e omicidi, mentre in Occidente hanno ricablato pressoché totalmente il dibattito pubblico.

Fenomeni prima impensabili, come l’elezione di Trump e Bolsonaro, la Brexit, il movimento No Vax, non avrebbero avuto luogo se gli algoritmi che governano le piattaforme non avessero avuto un ruolo sostanziale  nell’orientare l’opinione pubblica verso ipotesi che in precedenza sarebbero state giustamente confinate all’estrema minoranza di lunatici, o all’implausibile. In questo, l’innegabile influenza della “info-guerra sporca” mossa all’Occidente da alcune potenze ad esso avverse e desiderose di mantenere un perenne stato di caos non è il motore primo, ma piuttosto qualcosa che ha sfruttato correnti già ben e autonomamente presenti.

In una frase molto citata, Umberto Eco diceva che “i social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli», secondo un’idea superficiale di democrazia, che pure ha allignato con piena cittadina anche nel nostro Paese negli ultimi anni.

La ricostruzione di Fisher va però ben oltre: per anni, legioni ben più ampie, di imbecilli e di sociopatici certo, ma anche solamente di persone semplici, e certamente di giovani, sono stati sottoposti maliziosamente a una dieta che ha volutamente concesso il massimo spazio a ogni forma di informazione/intrattenimento che si facesse notare soprattutto perché forte, emotiva, smodata e concepita per suscitare reazioni forti, indipendentemente dal loro segno.

Di più, dalle scrivanie e dagli smartphone di questi utenti, tantissimi, la perversione informativa acchiappa-click e questo stato perenne di sovraeccitazione e divisione manichea sono tracimate fino a travolgere la gran parte dell’informazione più tradizionale e professionale e finanche la politica e le istituzioni. Intere fortune politiche, magari di breve respiro ma travolgenti per rapidità e dimensioni, si sono formate (e continuano ad esserlo) attorno allo sfruttamento di ogni forma di credulità popolare, l’amplificazione di ogni malessere, la creazione di un “noi” contro un “loro” senza curarsi minimamente delle conseguenze.

Max Fisher alloca l’apice di questo sfruttamento senza etica alla destra radicale, che ha prodotto tra gli altri Trump e Bolsonaro ed è una ricostruzione credibile certo, ma temo finanche parziale. Il ri-cablaggio ha certamente beneficiato chi ha storicamente avuto meno scrupoli nel costruire e comunicare verità artefatte, ma si è stabilmente insediato anche nei messaggi che si vogliono progressisti e nei suoi portavoce, a dimostrazione di un fenomeno endemico, che ha toccato il DNA del nostro stare insieme.

Penso alle derive della cultura “woke”, che diventa stupidità antistorica e antisociale e all’ambientalismo catastrofista, che produce ansia in luogo di soluzioni: entrambi hanno molto più a che fare con la retorica malata dell’alt.right che con almeno un secolo di pensiero progressista, che ha sempre badato ai mezzi oltre che ai fini.

Questo accade innanzitutto per debolezza culturale delle classi politiche le quali, alla ricerca di un consenso sempre più impalpabile e sfuggente, lo vanno acriticamente cercando dove sempre più persone si accalcano e si (dis)-informano, essendo a loro volta l’informazione istituzionale sempre più dipendente dalle, e modellata sulle, piattaforme.

Senza le conseguenze sanguinose del Myanmar, nessuna comunità può però essere governata strofinando continuamente peperoncino su un corpo già infiammato: ci sono delle scelte da fare e non si può pensare di governare la complessità senza mai fare sintesi, solo aizzando la propria folla e quella avversa, come avviene sulle piattaforme.

Ci sono questioni complicate, a parte i disastri della geopolitica e delle guerre culturali, che necessitano gestioni lunghe e accorte, che necessariamente trascendono ogni contingenza politica, come la demografia. La recente, corriva polemica sugli alunni italiani nelle classi è stata l’ennesimo esempio di un tema troppo delicato per essere lasciato alle opposte battute: rivendicare l’italianità delle classi oggi è chiaramente avverso a dinamiche demografiche potentissime, mentre la multietnicità non è aliena da problemi. Di nuovo, la realtà è molto più complessa di quella che si è schiacciata nei social e il loro specchio deformante non è più sostenibile.

A rendere le cose a venire ancora più complesse da questo punto di vista vi sono poi le prospettive dell’intelligenza artificiale, con la sua pervasività ed esponenziale capacità di manipolazione dei contenuti e delle informazioni (pari beninteso alle straordinarie opportunità che apre) e bene fa l’Unione Europea a porsi all’avanguardia della regolamentazione di tecnologie e appetiti che hanno dimostrato di non sapersi regolare da soli.

Ma serve anche, e soprattutto, altro: l’impegno diffuso di chi aspira a cariche pubbliche da posizioni non oltranziste ad utilizzare eticamente gli strumenti della comunicazione social (da cui non si può prescindere), per veicolare messaggi certamente di parte, ma che non incitino più o meno surrettiziamente alla polarizzazione distruttiva come accade oggi. Chi si presenta come moderato, o quantomeno attento al benessere complessivo della società, che passa anche da una cura per la sua infiammazione, non può più prescindere da questi aspetti, per quanto consenso possano costare.

Ugualmente, da questo punto di vista il libro di Fisher presenta argomenti inoppugnabili, i governi devono intervenire per orientare i comportamenti delle piattaforme laddove, come troppe volte accade, il loro interesse non coincide con quello delle società che le utilizzano. La fase prometeica, in cui le piattaforme arrivavano sbarcavano promettendo mirabilie e investimenti apparentemente senza chiedere nulla in cambio è finita: oggi sono un attore troppo potente in troppi mercati chiave (informazione, intrattenimento, cultura, società, politica), hanno mostrato ad abundantiam di non essere in grado di autoregolarsi e devono essere ricondotte a comportamenti meno distruttivi.

Vasto programma, ma innanzitutto farne oggetto di dibattito anche nel nostro distratto Paese, come tentano di fare alcuni valorosi pionieri, è un inizio, come lo è l’esercizio, che mi sono auto imposto da quando ho aperto “La macchina del caos” di non cadere più nella tana del coniglio di ogni polemica social, apparecchiata proprio per suscitare reazioni. È poco, certamente, ma da qualche parte bisogna cominciare.