Perché spiegare l’intelligenza artificiale senza ansie è necessario per salvare il Made in Italy

La discussione sull’intelligenza artificiale (IA) in Occidente ha ormai da tempo superato la barriera cognitiva che relega il dibattito sulla tecnologia a questione per i tecnologi. In pochi anni, la natura dell’IA, il suo sviluppo, la sua applicazione, e soprattutto le sue conseguenze, sono diventati tema di rilevanza generale, cosa accordata a ben poche innovazioni. 

Una tecnologia potente in tempi furiosi

Ciò è accaduto in larga parte per ragioni obiettive: l’IA ha a che vedere con una materia molto calda, la conoscenza nell’epoca storica del suo massimo valore economico; è straordinariamente potente, esponenziale, ubiqua e massiva in tutte le sue manifestazioni (velocità, potenziali impatti, conseguenze); è nel back office, ma anche nel front office, innerva processi e servizi di cui il pubblico ignora le dinamiche, ma è ben visibile anche nell’utilizzo quotidiano dei cittadini; si richiama infine nel nome a un accostamento ardito tra la funzione primaria dell’umano, l’intelligenza, e l’artificiosità tecnologica, con l’ambizione di essere un’innovazione talmente dirompente da superare l’ossimoro.

Né le giustificazioni positive e “razionali”, né la sempre più intrusiva commistione tra analisi dei fenomeni tecnologici e marketing delle tecnologie stesse (per cui si parla di Industria 5.0 mentre si è ben lungi dalla piena comprensione e implementazione del 4.0), bastano a spiegare il pathos così diffuso per l’IA, giunto fino a interventi diretti del Pontefice sul tema. C’è, nell’intensità e nella direzione del hype sull’IA, qualcosa di storico, che travalica l’innovazione in sé: è la reazione chimica, potenzialmente esplosiva, tra tecnologia esponenziale e tempi furiosi.

Viviamo in tempi di guerre, fisiche e informative, e in un contesto generale di precarietà e violenza sconosciuto in Occidente dal secondo dopoguerra. Questo significa una sfida sempre più aperta, esterna e interna, alle cagionevoli democrazie liberali da parte di soggetti questa volta totalmente a proprio agio con la tecnologia digitale, essendosi rotto il legame esclusivo tra democrazia e innovazione. Dittature o democrature posso utilizzare tecnologie molto sofisticate, basate sull’IA, per consolidare il proprio oppressivo potere o inquinare democrazie fragili incuneandosi nelle loro fragilità, anche emotive. Un ruolo troppo poco esplorato ha poi l’evidente cambio di registro narrativo nel racconto dell’innovazione da parte dei creatori, la svolta anarcoide della Silicon Valley. Dal “don’t be evil” della prima Google, forza sorridente del potere globale americano a trazione californiana, siamo passati alle intemperanze di Elon Musk, fino al celiare irresponsabile di Sam Altman sulla possibilità (sì, no, forse, dice il fondatore di Chat GPT, che gioca a fare Dio) che l’IA sfugga di mano e si ribelli ai suoi creatori, sottomettendoci.

In tempi di perma-crisi e perma-ansia, una tecnologia potente di suo, magnificata come ancora più potente e pervasiva a scopi commerciali, in mano a soggetti irrispettosi di regole consolidate di fair play, genera inevitabilmente attenzione e allarme, anche perché di fronte a tanti incendiari scarseggiano sempre più i pompieri.

Buona e cattiva IA? Lo decidono gli umani

Ragionare sulla natura e il contesto di fenomeni così rilevanti non è esercizio intellettuale vano, è la base per provare quantomeno a governarli, ossia a sostenere quella che Daron Acemoglu e Pascual Restrepo chiamano IA “giusta”, che si affianca agli uomini e ne aumenta competenze e abilità, e a contrastare l’IA “sbagliata”. “Wrong AI” non è solo quella del social scoring e delle fake news, ma anche quella al servizio della rendita economica più estrattiva e incurante delle conseguenze sociali e politiche di una corsa all’automazione sempre più spinta, che soppianta e/o marginalizza il lavoro umano, facilitando la combinazione esiziale di disoccupazione ed estensione del perimetro della gig economy ai colletti bianchi, relegati ad addestratori e controllori degli errori della macchina. 

C’è, nella antropomorfizzazione della tecnologia nella discussione sui possibili effetti di un suo dispiegamento, nel costante riferimento a “che conseguenze avrà l’IA” come se essa si sviluppasse (già) da sola, un po’ di superficialità e molto doloso scarico di responsabilità su scelte che sono assolutamente umane. La decisione di controllare oppressivamente cittadini e lavoratori, ovvero di aggiungere più spazio alla creatività umana e mettere l’organizzazione digitale della conoscenza a servizio delle sfide più impegnative per la società saranno prese e attuate da persone, non da macchine. Dovrebbe essere una banalità, ma in tempi complicati anche le banalità devono essere ribadite. 

La tecnologia, questa più di molte altre, spinge in avanti l’orizzonte del possibile tecnico ed economico, in quale misura e come lo si raggiunge è funzione del bargaining politico e sociale e dei rapporti di potere nella società. L’intelligenza artificiale non è la prima tecnologia con potenziale anche distruttivo, dalla fissione nucleare alla clonazione, ad essere oggetto di preoccupata attenzione: nei casi precedenti, il combinato disposto tra responsabilità della politica, pressione dell’opinione pubblica e self restraint degli scienziati ha ricondotto queste innovazioni nell’alveo del razionalmente gestibile e contrattabile. Così dovrà continuare ad essere anche per l’IA, oggi e nel futuro, tanto per gli scenari più orwelliani che evoca, quanto per le ricadute economiche e occupazionali che rischiano di minare la coesione sociale.

Quali saranno queste ricadute, e in quali tempi, è tema che comincia a dividere gli osservatori tra “apocalittici e integrati”, tra chi preconizza sfracelli e chi ripete il mantra del timore eccessivo per quella che sarà semplicemente una sostituzione di figure professionali, com’è accaduto in ogni rottura di paradigma. Oggi ovviamente non è ancora chiaro dove si andrà, né può esserlo, per tre motivi fondamentali: perché si torna ad attribuire autonomia antropomorfa allo sviluppo di una tecnologia, che essa non ha, divinandone i destini che stanno invece in scelte umane; perché quello che la tecnologia consente, l’orizzonte del possibile, è in rapido movimento; perché le scelte sottese alle dinamiche di sviluppo e diffusione delle tecnologie sono difficili da interpretare, a maggior ragione in periodi così fluidi e nel rumore di fondo dei venditori, e sono sintesi complessa di quello che la tecnologia consente di fare, delle regole che sovrintendono al suo utilizzo, delle condizioni di contesto, del tempo.

Federico Butera dava recentemente conto di una ricerca di Boston Consulting per la “MIT Sloan Management Review”, soggetti certo non avversi alla tecnologia, da cui emergeva che sette imprese su dieci che avevano investito in IA ne avevano avuto ritorno “nullo”, come è normale per molti early adopters. Sostenere che l’IA farà moltissima strada solo perché è molto potente è una buona formula commerciale, non un’affermazione seria.

È compito di chi osserva i fenomeni senza immediati, per quanto legittimi, interessi commerciali né obiettivi politici (nel senso di public policy), capire quali sono le condizioni perché la gran parte dell’economia e della società possa effettivamente beneficiare di una tale innovazione, cercando di controllarne gli aspetti potenzialmente più eversivi.

La missione: valorizzare e innovare il lavoro umano e la biodiversità italiana

Tale obiettivo, in un contesto di estrema biodiversità culturale e produttiva come quello italiano, non è esente da complessità e richiede, per molti versi finalmente, una due diligence di quel valore che si vuole meritoriamente innovare. Perché l’atteggiamento di puro conservatorismo non è sostenibile, le tecnologie devono entrare nelle vene e nei nervi della nostra società per darle forza e futuro, e perché “i mercati sono conversazioni” ed è necessario che il valore sia evidente per essere apprezzato e acquistato.

L’approccio romantico al lavoro umano come valore in sé è stato purtroppo ampiamente superato e l’automazione si fa largo in molti ambiti prima ritenuti appannaggio di lavoratori della conoscenza che si ritenevano “salvi” e oggi subiscono processi di marginalizzazione e sostituzione. 

A tale proposito, lo scorso anno una delle maggiori traduttrici letterarie italiane ha lanciato un grido di allarme sulla scomparsa della sua professione nel giro di cinque anni, in favore delle traduzioni automatiche. Se è difficile pensare che testi letterari dedicati ad un pubblico colto e raffinato saranno presto automatizzati, è invece ragionevole pensare che lo saranno certa saggistica e manualistica di medio-basso livello, e che lo stesso varrà per i contenuti e i prodotti più dozzinali.

Ciò che dozzinale non è, in un mercato libero, deve avere il coraggio e le idee chiare di rivendicarlo e di rivendicare e comunicare il valore dei propri prodotti e servizi, ma anche il proprio valore sociale. Alle presunte ragioni della razionalità tecnologica ed economica che sottendono i processi di automazione e standardizzazione dell’offerta, bisogna contrapporre le ragioni morali, culturali ed estetiche del preferire il lavoro umano non come scelta nostalgica, ma pienamente contemporanea e anzi sanamente orientata al futuro. 

Se quella che considera l’elemento umano del lavoro come valore assoluto è una battaglia tutta misoneista, del vecchio contro il nuovo, è destinata ad essere una battaglia persa, se invece è, come dovrebbe, l’affermazione di alcuni elementi irrinunciabili, all’interno dei quali fare fluire impetuosamente dei processi non distruttivi ma generativi di innovazione, avrà un grande futuro. 

Fuor di metafora, non possiamo pensare di schermare la nostra economia dai venti dell’innovazione e dell’IA ma possiamo, in sede almeno europea, regolamentare le derive più distruttive. Soprattutto, dobbiamo avere imprese umane e umanistiche più forti, perché più contemporanee e consapevoli del loro valore. Per questo scopo, bisogna avere visione e competenze per andare oltre le narrazioni inefficaci sull’innovazione, e tornare a guardare prima ai problemi da risolvere e alle opportunità da creare che alle tecnologie da acquistare. Questo è l’approccio pragmatico che seguono le imprese, anche molto piccole, pienamente umane e contemporanee di successo: sono a proprio agio con le tecnologie e l’innovazione e utilizzano le opportunità di tempo e risorse risparmiate, e di nuovi mercati aperti, per rendere più evidente ed efficace la loro proposizione di valore. È un obiettivo arduo, ma raggiungibile, che fa leva sul naturale utilitarismo dell’imprenditore che ha ancora voglia di fare impresa e sulla sua curiosità per quello che gli consente di crescere, adattandolo alla sua realtà. Il meglio del Made in Italy è nato così.

Oggi, la soluzione di continuità è tale da richiedere un lavoro nuovo e molto intenso di divulgazione dell’innovazione, ascolto dei timori e delle problematiche, proposta di soluzioni e ispirazioni. Vale per l’impresa, ma anche per il resto della società, che rischia di trovarsi parimenti smarrita dalla narrazione furiosa del cambiamento, e di attivare meccanismi luddisti di rifiuto che potrebbero farci molto male. Bisogna recuperare uno spirito di missione per raccontare l’IA e l’innovazione e farle comprendere, appassionando anche chi non la pratica. Perché fare pace con l’innovazione e la contemporaneità è presupposto fondamentale per recuperare quell’energia e quella voglia di sperimentare e fare (anche molto spesso impresa) che ha fatto grande l’Italia nel ‘900 e che ora sembra spenta in un Paese molto più anziano e ritratto.

Senza cedere alla comunicazione ansiogena in voga, per la quale è sempre già troppo tardi per tutto, c’è invece ancora modo di disegnare percorsi di innovazione attenti al contesto, che integrino la potenza di tecnologie come l’IA al servizio di un progresso sociale ordinato e inclusivo, governandone gli effetti più distorsivi. Bisogna avere la volontà politica di farlo, e gli strumenti per operare. Le intelligenze, naturali, non mancano, bisogna solo liberarle.

  Post Precedente