La pandemia ha rotto meccanismi complessi e consolidati, abitudini sociali e processi economici.
In alcuni casi, questa rottura si sta presentando come un parentesi, un brutto momento che speriamo di superare e di dimenticare presto. In altri casi, sta invece agendo come il maledetto virus, sottopelle e in modi imprevedibili, determinando cambiamenti non parentetici ma potenzialmente strutturali.
Senza mai dimenticare l’avverbio “probabilmente”, che serve da filo d’Arianna dialettico per non perdersi e non prendere troppo cantonate mentre si ragiona di futuro durante le trasformazioni, possiamo ascrivere alla categoria della parentesi il tema dello smartworking come nuova organizzazione di massa del lavoro nei servizi. Molti grandi datori di lavoro hanno infatti già annunciato un ritorno in presenza, almeno per tre giorni a settimana, circostanza che renderebbe arduo per molti uno spostamento fisico in location amene ma lontane dalle città. È assai probabile che la parentesi, in questo e in altri casi, non si chiuda di netto e che resti una sovrapposizione di usi, con i consulenti e i collaboratori esterni più propensi e in condizione di lavorare da fuori e i dipendenti maggiormente legati alle scelte del management.
Altrettanto probabilmente, però, altri ambiti dell’organizzazione sociale ed economica subiranno mutazioni cellulari più sostanziali, frutto della combinazione tra due cicli pandemici (una parentesi troppo lunga) e la necessità delle imprese di adattarsi velocemente ai vincoli per continuare a lavorare. Un adattamento che permette anche di superare resistenze e inerzie nei confronti di nuove soluzioni per produrre, comunicare e vendere i propri prodotti. È già così, e qui il probabilmente è meno necessario, per la crescita significativa dell’e-commerce anche in piccole e piccolissime imprese. Sarà probabilmente così per le fiere, contemporaneamente industria primaria per il nostro Paese e primaria modalità di internazionalizzazione delle nostre imprese.
La riflessione nasce, oltre che dal rinvio delle principali fiere del made in Italy al 2022, con un salto per alcune di due anni, dagli eventi che in questi giorni stanno riguardando una delle più iconiche fiere italiane, il Salone del Mobile.
Saltato l’anno scorso, il Salone del Mobile si sarebbe dovuto (?) tenere il prossimo settembre, simbolo di ripartenza di Milano come capitale globale del design. Ormai da anni infatti il salone del Mobile è molto più di una semplice quanto importante fiera, è un sistema di eventi diffuso che sconvolge positivamente la città e crea un indotto quantificato l’anno scorso in oltre 200 milioni di euro. Denaro e attività che quest’anno sarebbero stati balsamo per un insieme vastissimo di operatori economici, dal turismo all’allestimento delle fiere alla comunicazione, stremato dalle chiusure e dai ristori tardivi e insufficienti. Il Salone del Mobile avrebbe (?) davvero riaperto Milano, sarebbe stato un piccolo, laico, festoso e commerciale concerto di Toscanini alla Scala.
È notizia di ieri però che Claudio Luti, imprenditore del Design e soprattutto Presidente del salone del Mobile, si è dimesso da quest’ultima carica per la probabile rinuncia (non ancora ufficializzata) da parte delle maggiori aziende del settore a prendere parte a un’edizione che si preannuncia minore, soprattutto sul versante cruciale delle presenze di visitatori e compratori stranieri, che rappresentano da anni i due terzi dei visitatori della fiera.
Comprensibilmente colto dal panico per le conseguenze economiche e politiche di un simile stop peraltro in un anno elettorale, il Sindaco Sala ha diffuso un video rivolto alle aziende del design e dell’arredo, nel quale chiede un investimento in perdita nella prossima edizione del Salone, come atto di generosità verso l’indotto e per evitare il rischio che altre metropoli europee raccolgano lo scettro posato da Milano. Un tentativo dignitosamente disperato, ma che personalmente non mi ha convinto, come non mi ha convito l’ostensione della lettera del Presidente Mattarella, che conferma la sua presenza all’inaugurazione a questo punto in forse.
Ovviamente, da milanese mi auguro che l’appello del Sindaco abbia successo e che tutto possa tornare come prima, ma da osservatore il pessimismo della ragione ha la meglio, proprio perché la pandemia ha scoperchiato un vaso di Pandora di mutazioni nei mercati che difficilmente potranno essere completamente rinchiuse.
La prima, fondamentale questione che si pone la prendo in prestito da un osservatore privilegiato del mondo del design, che sulla sua pagina Facebook reagisce al freschissimo rapporto di Intesa Sanpaolo “Economia e finanza dei distretti industriali” con una domanda secca: “Il Salone del Mobile, per come l’abbiamo sempre conosciuto, serve ancora alle imprese?” La risposta potrebbe realisticamente essere NO, guardando al fatturato in crescita delle imprese del settore durante la pandemia, in opposizione ad esempio al profondo rosso della Moda.
Le imprese del settore, sempre più concentrate nell’alto di gamma, stanno trovando nella digitalizzazione dei processi produttivi e distributivi soluzioni che non sono più solo pezze a colore per salvare il salvabile, ma diventano nuovi modi di produrre e di vendere anche oggetti preziosi. Non è detto che la sfida per questi player, globali anche se italiani di nascita, sede, proprietà e gusto, sia necessariamente quella di tornare a investire in una fiera globale. Anche perché, tra pandemia e Suez, l’aggettivo globale sta rapidamente mutando anch’esso di senso: meno persone e merci in giro per il mondo e più mondo comodamente a casa propria, magari prodotto almeno nel medesimo continente. Le sfide si chiamano dunque reshoring, filiere corte, 4.0, sostenibilità, esperienza digitale.
Il mio pessimismo è acuito dall’evoluzione già pre pandemia di un settore a me molto caro, quello delle biciclette. Nel giro di pochi anni, grazie soprattutto all’impatto del digitale, le fiere di settore, alcune di grande tradizione e richiamo, hanno cominciato a perdere pezzi, essenzialmente perché i grandi player hanno ritenuto che altre modalità di presentazione dei propri prodotti offrissero migliori esperienze e garantissero un miglior ritorno dell’investimento. Oggi resistono poche manifestazioni e in un Paese come l’italia, primo esportatore europeo di biciclette con oltre 1,7 milioni di pezzi venduti, non esiste più una fiera degna di questo nome.
Non voglio in alcun modo fare la Cassandra, ma bisogna onestamente ragionare del fatto che, in un contesto di economia di mercato, la lecita utilità delle imprese non può essere conculcata troppo a lungo senza contropartite e solo in nome della “generosità”.
Ovviamente, cosa di cui in questa pandemia si sono accorti anche i più distratti, l’economia dei paesi avanzati è fortemente interdipendente. Le fiere sono organizzazioni vive e complesse, che danno lavoro a tantissime persone e la possibile decadenza di una fiera mette in allarme l’intero territorio, a maggior ragione di fronte a una kermesse così importante come la Design week e dopo la mazzata della pandemia.
È anche possibile, me lo auguro davvero, che alla fine si trovi una quadra e che il Salone del Mobile si tenga lo stesso, certamente in forma minore e molto probabilmente con una ripartizione degli investimenti tra privato riluttante e pubblico preoccupato. Ci sta e sarebbero nell’immediato soldi spesi non male per fare ripartire l’economia. Ma non basta.
Un vecchio sindacalista una volta mi spiegò che il buon sindacato deve essere strabico: guardare con un occhio all’oggi e alla difesa dei diritti e con una altro a quello che verrà e a come l’orizzonte dei diritti andrà modificandosi.
In questo caso, il giusto keynesismo dell’oggi non può essere il conservatorismo di domani.
Occorre, probabilmente, attrezzarsi per una nuova globalizzazione che nei prossimi anni farà muove meno persone e meno merci. Occorre, probabilmente, pensare alle fiere fisiche come eventi più contenuti, sporadici e locali di quelli attuali e dunque preparare l’indotto, già in crisi, alla riconversione. Occorre, probabilmente, pensare almeno alle prossime due design week come eventi innanzitutto di pubblica utilità, con di conseguenza un ripensamento della governance e dei finanziamenti, che non rispondano ad aleatori criteri di “generosità”, ma ad un idea diversa del governo dei processi economici e delle città nel post pandemia.
Occorre, senza probabilmente, che le filiere accelerino nella transizione digitale ed ecologica, senza perdere pezzi, lavorando su inclusione delle piccole imprese, utilizzo delle tecnologie e competenze. Occorre, senza probabilmente, provare almeno a rivitalizzare il mercato interno, abbandonato per anni dalle ricche sirene dell’export (che deve rimanere, ma con più attenzione al mercato di casa). Occorre, senza probabilmente, affrontare il tema del rientro delle produzioni in Occidente, sapendo che come Italia siamo in ritardo e rischiamo di sostituire il “made in China” con il “made in Poland”.
Poi, come tutti i milanesi, spero di tornare prestissimo a lamentarmi della bolgia di gente in giro per i quartieri del Fuorisalone. Vorrebbe dire che siamo tornati vivi.
In copertina il Manifesto ufficiale della Fiera Campionaria di milano del 1955, una manifestazione che tutti i milanesi over quaranta pensavano non sarebbe mai finita (Fonte: Fondazione Fiera di Milano).