Vigilanza democratica

La scelta del governo di avvalersi nella redazione del Recovery Plan della collaborazione di una multinazionale della consulenza strategica come McKinsey solleva alcuni interrogativi, perplessità e timori e soprattutto sollecita alcune riflessioni legate all’eccezionalità del momento che stiamo vivendo e alle direttrici di uscita.

Non si tratta di una questione venale (tanto più che la collaborazione pare essere pro bono o a prezzo politico), né tantomeno di dubbi circa la competenza e il valore aggiunto che una delle maggiori multinazionali della consulenza strategica può apportare al Piano. Non si tratta nemmeno, benché la questione non sia peregrina, di evidenziare come la Pubblica Amministrazione stessa, ma anche allargando il campo l’università e il sistema italiano della ricerca e della consulenza in campo organizzativo ed economico avessero risorse intellettuali sufficienti a rendere il PNRR più attuale, robusto e fondato di quanto si riteneva fosse stato quando licenziato dal Governo Conte.

Anche se, come ha precisato il MEF, il supporto di McKinsey sarà prevalentemente tecnico, la scelta di un Governo che ostentatamente è stato scelto per sostituirsi alla politica in virtù delle proprie superiori  capacità di esecuzione di servirsi di questa multinazionale non può che accendere una scintilla di considerazioni anche preoccupate in questi tempi difficili.

McKinsey è in tutto il mondo un riferimento per il pensiero manageriale, soprattutto per quanto concerne la riorganizzazione dei processi aziendali secondo principi variamente definiti di standardizzazione e dimagrimento, portati a ulteriori estremi limiti dalle tecnologie digitali. Secondo un suo biografo, Duff McDonald, “McKinsey e’ stata semplicemente la protagonista più influente delle più importanti trasformazioni del capitalismo degli ultimi cento anni. Qualsiasi problema le società dovessero affrontare McKinsey era pronta con una soluzione”. È autorevolissimo esponente di una visione globalista dell’impresa e dell’economia, dove le dimensioni e lo standard sono un prerequisito per fare qualunque cosa. Qualunque entità sotto massa critica o troppo difforme è, molto prima che una risorsa, un problema o un non essere. Con grande lungimiranza, poiché la consulenza ad alti livelli non è mestiere per la vita, McKinsey ha sempre incentivato la migrazione delle sue persone nelle aziende, fenomeno che ha dato vita a network (i “McKinsey boys”, mi scuseranno le signore ma si chiamano così) globali di ex consulenti poi divenuti top manager, perché è bene ribadirlo si parla dell’élite del pensiero manageriale.

Sono “McKinsey boys” tra gli altri Corrado Passera, Alessandro Profumo, il neo Ministro per la Transizione Digitale Vittorio Colao. È “director emeritus” di McKinsey, oltre che editorialista, saggista e ideologo, anche Roger Abravanel, autore per l’editore del Corriere della Sera di un saggio dall’inquietante titolo di “Aristocrazia 2.0”. La sintesi sulla seconda di copertina è una dichiarazione programmatica inequivocabile,  oltre che una dimostrazione dell’acume dell’edito nella scelta dei tempi di pubblicazione “L’Italia di oggi soffre di una cronica mancanza di ricambio meritocratico nella sua classe dirigente, imprenditoriale e politica, che la sta condannando al declino. Aristocrazia 2.0 è il progetto possibile di una nuova élite del talento e della competenza che può portare finalmente il nostro Paese fuori dalla palude di impoverimento e decadenza in cui si trova da quarant’anni a questa parte, resa ancora più profonda dalla pandemia di Covid. Per vincere la sfida della rinascita l’Italia deve introdurre la cultura del merito a scapito dei privilegi delle rendite che insieme agli eccessi dell’egualitarismo e alla furbizia anti-regole hanno costituito un blocco che ha frenato finora lo sviluppo e le opportunità”. Il problema dell’Italia è il merito. Concentrate il merito e i suoi portatori, fatene classe dirigente coesa e consapevole (una specie di McKinsey boys) e datele lo spazio che merita senza impacci. Avrete un Paese che corre, come le imprese che si affidano a McKinsey per dimagrire e tornare a correre.

È certamente forzato leggere nell’incarico del MEF alla società di consulenza un disegno in linea con la visione del suo anziano esponente oggi guru turbocapitalista. Forzato come è eccessivamente dabbene pensare che i consigli che questa dispensa a imprese e governi non abbiano in sé una carica ideologica, la cui forza emerge con particolare virulenza in momenti di esplosione delle compatibilità e di emersione violenta delle contraddizioni sociali e politiche. Momenti come quello attuale.

Ho sfogliato il libro di Abravanel nella libreria di una grande galleria romana, a fianco a Palazzo Chigi, unico negozio rimasto aperto in quello che fino a pochi mesi fa era un lussuoso centro commerciale naturale. Quella visione spettrale, da evacuazione forzata, aveva peggiorato il mio umore e rafforzato l’angoscia che nasceva dalla lettura del rapporto Istat sulla povertà (un milione di poveri in più in un anno, la gran parte concentrati a Nord senza risolvere il problema del Sud) e da un pezzo a commento su La Stampa, che raccontava storie di miei coetanei, connazionali e soprattutto vicini di classe sociale, divenuti con la pandemia così poveri da dover fare ricorso a strutture di welfare estremo, come le mense della Caritas.

Mentre il tessuto della società si smaglia anche per chi non avrebbe mai immaginato di finire nei buchi, un pezzo crescente dell’élite si fa avanti per chiedere spazio e rivendicare il volante in virtù di una legittimità che prescinde completamente dalla democrazia, anzi la mette radicalmente in discussione, sostituendole l’adamantino principio del merito. Pretese legittime, e certamente non nuove, ma che trovano inedito spazio presso un’opinione pubblica stremata e soprattutto un sistema democratico che ha in buona parte smesso di funzionare.

Mentre McKinsey si poneva al servizio di un Governo ideologicamente simpatetico, Abravanel pubblicava il suo elogio dell’elitarismo e il numero dei poveri assoluti in Italia esplodeva (nonostante il blocco dei licenziamenti di cui è già stata chiesta a gran voce la rimozione), due delle tre principali forze politiche in Parlamento che rivendicano in diversi modi una radice elettorale nel popolo deflagravano, lasciando il sistema dei contrappesi pericolosamente zoppo.

L’esplosione più recente, fragorosa e paradigmatica è stata quella del Partito Democratico, dilaniato dalla nascita dalla compresenza irreconciliabile di istanze di modernizzazione globalista anni ’90 e istanze socialdemocratiche di protezione fordista. Resta pochissimo in mezzo e di veramente nuovo, ed è un problema perché nel mezzo ci sono i quarantenni italiani impoveriti, i rider, i territori marginalizzati della Provincia che non vuole diventare periferia, le imprese che hanno fatto i compiti ma hanno perso competitività. Soggetti e problemi nuovi, o riemersi in nuove forme, che richiederebbero risposte o quantomeno buona rappresentanza, che non ci sono.

Senza partiti genuinamente e innovativamente popolari, queste istanze e questi problemi sono destinati a incancrenirsi, a prendere necessariamente la forma già vista della “vendetta degli esclusi”. Una vendetta che solo gli illusi possono pensare non tornerà in forme più violente se non si risolveranno nodi economici e sociali che la pandemia ha reso più disperati e radicali. Se così sarà, la colpa andrà attribuita anche al fatto che in questi anni mentre gli esclusi aumentavano sia stata offerta loro rappresentanza politica quasi tutta cattiva o distratta, salvo congratularsi fra élite quando un problema più grosso nascondeva la polvere delle diseguaglianze sotto il tappeto.

Ci sarebbe molto da dire sulla crisi del PD e dei partiti, ma non è questa la sede. Quello che si può dire invece è che, e in questo hanno ragione gli elitisti, la velocità, mutevolezza e magnitudine dei problemi è tale da sfuggire in grandissima parte anche solo ai radar cognitivi della politica, figuriamoci alla sua capacità di risposta. Non è infatti in discussione l’importanza delle competenze e dei talenti, ma la necessità di una loro inequivoca messa a servizio di progetti politici, democratici come legittimazione e progressivi, ossia aperti e inclusivi, come traiettoria.

Siamo all’inizio di un kulturkampf fra chi pensa di approfittare della crisi del Covid per dare una spallata definitiva alla nostra infrastruttura sociale e culturale (territori, diversità, impresa diffusa, irregolarità che si fa ricchezza) e colmare il “ritardo non solo economico ma di pensiero rispetto ai Paesi leader in Occidente e nel mondo asiatico” (Abravanel) e chi pensa che rimagliare il nostro tessuto sociale sia un dovere e un’opportunità. Per questo motivo occorre vigilare e recuperare capacità di proposta.

Vigilare perché l’apparente neutralità e ineluttabilità degli imperativi della modernizzazione nasconde scelte e conseguenze tutt’altro che neutrali e ineluttabili. Vale per la transizione al digitale, che può essere uno straordinario strumento di empowerment per i cittadini, le imprese e i territori, può creare lavoro buono, contribuire ad accrescere la qualità della vita, ridare un futuro a tante persone espulse dal mercato; può però anche essere lo strumento che scava il definitivo solco tra chi sa e chi non sa, tra chi guarda al mondo e chi non ha dove guardare. Vale per la transizione ecologica, che cambierà il nostro modo di produrre, abitare, nutrirci e muoverci: potrà creare ricchezza e qualità della vita o degenerare in una classe di privilegiati dipinti di verde nei centri urbani a scapito di milioni di poveri costretti a muoversi ancora peggio e a pagare il prezzo di benefici che non vedranno. In Francia questo ha prodotto i gilet gialli e non c’erano ancora le conseguenze della pandemia.

Ma vigilare e difendersi non basta, è necessario farsi portatori attivi e creativi di nuove opzioni, di un nuovo immaginario.

Certo servono le competenze, ma la retorica delle università d’eccellenza francamente ha stancato e soprattutto ormai è evidente che serve concimare di competenze tutto il terreno, non la zolla più al sole. Accanto ai progetti strategici su intelligenza artificiale, blockchain e altre tecnologie di frontiera bisogna spingere con decisione, creatività e un po’ di anarchia sulla crescita dello stock di competenze dei lavoratori e dell’impresa diffusa, perché non restino tagliati fuori dalla competizione. Competenze e creatività, mixate secondo un pensiero che è non solo più democratico, ma più moderno dei globalizzatori anni ’90, possono dare vita a soluzioni in grado di scuotere il Paese dal torpore della crisi senza cambiarne i connotati.

Penso al tema dello smart working e delle sue conseguenze per i luoghi. Al posto dell’attuale infatuazione borghese e decadente per i borghi e il south working da cartolina, una capacità progettuale vera basata su tecnologia inclusiva e competenze come fattore di sviluppo potrebbero dare vita a progetti potenti di redistribuzione del lavoro nei servizi avanzati che restituisca ai luoghi decentrati capitale umano e risorse estratte nel tempo.

Queste cose McKinsey non solo non ha interesse, ma nemmeno capacità di pensarle e di proporle. Ci vuole qualcuno che lo faccia e soprattutto qualcuno che abbia voglia di trasformare queste idee e progetti in politica. Qualcuno che oggi sembra non esserci o parlare a voce troppo fioca. È un lavoro difficilissimo, perché siamo in guerra, non solo con il virus, ma anche con una cultura aggressiva ed escludente.

Sarebbe però una buona battaglia.

 

Ph: Bruno Panieri