Le PMI e i conti con il Recovery Plan

Ho letto il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, tutto e con attenzione.

È un lavoro massivo, a tratti impressionante, e straordinariamente ambizioso di modernizzazione del Paese, dalle fondamenta e in un tempo assai breve.

Confesso di essere scettico verso questi esercizi organicisti di programmazione strategica, soprattutto se rivolti a un corpo vivo come una nazione, soprattutto se quella nazione è un corpo vivo con un cervello bizzarro come l’Italia, ma è innegabile che sia stato fatto un grande lavoro. E credibile.

Le critiche possibili al PNRR in questa versione sono dal mio lato 5:

1. Il carattere fortemente verticistico della sua costruzione. Nell’epoca della progettazione partecipata come elemento ormai comune della cittadinanza contemporanea, il documento di pianificazione della ripartenza del Paese nasce e si sviluppa tra pochissimi tecnici e con un contributo inesistente anche dei rappresentanti eletti. Vero, ma nessun processo democratico avrebbe potuto garantire questo risultato in questo tempo. Il perché è il vero problema su cui bisognerebbe riflettere.

2. L’assenza di specificità italiane in senso positivo e la predominanza del tema dell’integrazione. L’Europa paga, l’Europa decide. La Commissione ha delle priorità di intervento e su tutte privilegia la massima integrazione delle pratiche e delle culture e questo è il risultato.

3. La disomogeneità della qualità progettuale e degli approcci. Alcune missioni e aree progettuali (PA, Green, Scuola) volano molto alto, sono concrete e visionarie, disegnano scenari nuovi e appassionanti, supportati da investimenti rilevanti. Altri, in particolare sull’asse lavoro/imprese/innovazione, sono sinceramente meno entusiasmanti, già visti nelle proposte e molto meno generosi nelle risorse. Il PNRR del resto è stato un lavoro poco democratico ma non monocratico e le teste e la qualità dei contributi non possono essere omogenei.

4. Le fortissime interdipendenze, difficili da gestire in sede di implementazione del Piano. Le misure sono a incastro, su un modello sequenziale del tipo prima riformo, poi digitalizzo, poi offro il servizio, poi cresce l’output. La Commissione Europea, che ha dato moltissimo all’Italia, vuole fatti, indicatori, risultati e misurerà gli step intermedi per attribuire il resto delle risorse. Bisognerà dipendere dal lavoro di tantissime amministrazioni, anche di alcune storicamente poco virtuose, per andare avanti. È un rischio. Senza retorica, però, siamo di fronte a uno strumento eccezionale per tempi eccezionali, ed è giusto chiamare in causa un po’ di etica e responsabilità a mitigare i nostri tribalismi e le nostre mediocrità.

5. L’impostazione Statocentrica del Piano. I Piani della magnitudine del PNRR esistono o dove non si crede al Mercato o dove, è questo il caso, si ritiene che il motore del Mercato debba essere fatto ripartire da una mano molto visibile e pubblica. È un rischio, forse un’opportunità, ma è soprattutto una certezza: l’economia del prossimo decennio sarà a prevalente trazione pubblica e il PNRR ne è il primo esempio organico, forse non l’ultimo.

Per quanto non privo di difetti, minori ripeto di similari libri dei sogni, il PNRR è comunque una realtà fatta per rimanere e soprattutto per dare, con la forza dell’Euro, lo spin alle nostre traiettorie di sviluppo con un approccio integralmente integrazionista. È buono quello che si incastra nella visione europea (occidentale) di sviluppo, non lo è quello che la rallenta o la devia. Dopo la crisi della pandemia (e la spinta potenzialmente distruttiva dei populismi sovranisti) la ricetta è quella della tripla transizione, digitale, ecologica e sociale, con robuste dosi di ingegneria sociale, economica e costruttiva. Un disegno finalizzato a ricondurre un capitalismo disfunzionale verso una società di mercato sì, ma più attenta a prevenire e correggere le storture che il mercato stesso crea. Una società e un’economia che hanno senso quanto più sono uguali, da Helsinki a Lampedusa, da Faro a Lodz.

Si sarebbe potuto fare diversamente? Certamente sì, ma la discussione su questo è adesso tardiva e oziosa e soprattutto distrae dall’obiettivo, che è quello di ricostruire il Paese come vuole l’Europa, anche approfittando degli sforzi di generosità che il PNRR certamente contiene.

Ora tocca essere all’altezza delle sfide e lavorare per risollevare il Paese da quella teoria di liste nere nelle quali si trova non appena si fanno confronti europei di performance. Vale per i territori, per la PA, per il capitale umano e la scuola e, molto, per le piccole e medie imprese. Questo è il campo di gioco e non è più rilevante, e soprattutto è tardivo, discuterne le regole. Anche perché tra molte inevitabili criticità il PNRR è complessivamente un affresco coerente, a tratti perfino esaltante, di trasformazione del Paese. Un trasformazione costruita attorno al principio che c’è tanta strada da fare e tocca mettersi a correre.

Fra coloro che il PNRR obbliga a correre ci sono certamente le micro, piccole e medie imprese. Non sorprende ovviamente, anche se continua a non fare piacere, che le MPMI siano protocollate nel PNRR come ragione delle cattive performance produttive del Paese e MAI come forma caratteristica di organizzazione di una vitalità economica e creativa diffusa in tutta la penisola, ma tant’è. La loro difesa sociale e culturale non può tuttavia negarne i limiti, ancora più evidenti alla luce delle sfide che si hanno di fronte con le transizioni digitale ed ecologica. Che sono due passaggi accomunati dalla tensione al futuro, ma assai differenti per conseguenze, grado di maturità, opportunità e soluzioni.

La transizione digitale era già attuale almeno dieci anni fa. Oggi, dopo la pandemia, è semplicemente il più chiaro e potente discrimine tra le imprese in grado di restare sul mercato e quelle che purtroppo non ce la faranno. Ce lo dicono i comportamenti d’acquisto dei clienti, le impennate dei servizi digitali, lo spostamento di investimenti delle imprese più grandi dal fisico (negozi, fiere, eventi) al digitale, a parità se non ad incremento di fatturato. Oggi ancora più di ieri i limiti alla transizione digitale delle imprese sono organizzativi e di competenze molto prima e molto più che finanziari. Grazie a misure come Transizione 4.0, agli incentivi regionali e camerali, e a quelli che verranno dal PNRR stesso, oggi e ancor più domani le risorse per investire in digitale sono a portata di mano di un numero rilevante di imprese, quasi tutte quelle minimamente strutturate, anche grazie alla trasformazione delle soluzioni digitali in piattaforme di servizio, con un rilevante abbassamento dei costi. Il problema è che a questo strumentario corrisponde una domanda assai debole, perché troppo poche e sempre le stesse sono le imprese che sono in grado di comprendere e mettere a frutto le opportunità. Mancano competenze e soluzioni organizzative a misura di micro e piccola impresa per governare i processi di digitalizzazione e fare crescere le filiere. Questo il PNRR lo dice chiaramente, salvo però perdersi in soluzioni aggiuntive e fumose come i “campioni regionali di R&S”. È necessario ribadire con chiarezza che la soluzione ai problemi strategici e di competenze del sistema diffuso delle MPMI non verrà dalle università né dal sistema della ricerca, che deve essere impiegato per altri nobilissimi scopi come l’alta tecnologia. Utilizzare università e centri di ricerca e trasferimento tecnologico per fare innovazione delle micro e piccole non ha mai funzionato e non funzionerà, perché scopi e linguaggi sono troppo differenti. Che se ne continui a parlare e lo si scriva anche nel PNRR è il frutto dell’aggressività dell’accademia nel reclamare la primazia su ogni processo di innovazione, della scarsa creatività del legislatore, della perdurante incomprensione del problema in sede europea e dell’afonia delle micro e piccole imprese. Tanti torti diversi, che però non fanno una ragione. I risultati in termini di allargamento del perimetro di utilizzo delle tecnologie che il PNRR giustamente invoca verranno dall’utilizzo consapevole da parte delle MPMI della risorsa ITS potenziata da nuovi investimenti, dalla strutturazione di servizi di accompagnamento a misura di micro e piccola impresa, dalla messa a disposizione di incentivi anche limitati ma semplici, che permettano alle imprese di andarsi a procurare competenze e innovazione dove esse già sono, sul mercato. L’ esperienza di questi anni dice che non esistono altre strade e il contesto dice che su questa strada bisogna tutti correre molto più veloce.

La transizione ecologica è tutt’altra partita. È urgente, urgentissima, ma lo è ancora più per scelte comunicative che hanno spinto a scelte politiche che per una reale penetrazione nel corpo della società e delle imprese. È una priorità ancora ZTL, non perché è un capriccio, ma perché presuppone ancora una capacità di lettura fine e prospettica dei fenomeni che sfugge a chi ha una vista meno acuta. La messa della transizione ecologica in cima all’agenda è ancora, e sarà per un po’, un processo tutto di testa, governato dal bastone delle regole e dalla carota degli incentivi e confezionato con il doppio scopo di salvare la Terra e fare ripartire l’economia con i nuovi bisogni della mancanza di bisogni. Sarà così per un po’, anche se i processi di propagazione delle priorità sono sempre più veloci, almeno finché si raggiungerà quella massa critica di clienti/utenti per cui la sostenibilità sia davvero un tema irrinunciabile. Mi permetto su questo una nota un po’ polemica e passatista: fa sorridere che oggi la sostenibilità sia in cima all’agenda di soggetti (le multinazionali dell’obsolescenza programmata, la finanza, il real estate), che prima hanno desertificato culture produttive sostenibili facendo un mucchio di soldi. I negozi di vicinato, gli artigiani riparatori, le culture alimentari del KMzero e della stagionalità noi ce le avevamo prima dei centri commerciali, dell’elettronica che quando si rompe si butta e dei discount alimentari. Spiace oggi dover prendere lezioni di frugalità da chi ha molte responsabilità per il disastro, certamente più di quante può averne un artigiano che le sue cose le ha sempre fatte per durare o per essere riparate. Ancora una volta, però, molte delle responsabilità risiedono nella debolezza e timidezza culturale di quel mondo piccolo, nell’incapacità di fare valere le proprie ragioni. Bisognerà essere meno timidi nel non lasciare la partita della sostenibilità alla speculazione finanziaria in cerca di nuove scommesse. Artigiani che producono cose belle, innovative e sostenibile ce ne sono tanti, dovranno essere valorizzati, ascoltati e portati ad esempio perché la via italiana al green sia veloce ma originale e rispettosa della nostra cultura.

Anche i territori dovranno correre e a questo il PNRR dedica una programmazione visionaria e coraggiosa, in grado davvero di andare oltre la dittatura dei centri urbani per guardare al complesso delle aree, a partire da quelle più marginali. Un’energia che si spera non verrà troppo neutralizzata dalla bassa cucina corporativa e dalla mediocrità amministrativa.

Io mi sono convinto che se almeno il 60% del PNRR fosse realizzato, per il 2026 potremmo avere disegnato un Paese certamente più dinamico e innovativo di oggi e mi sembra una buona ragione per mettersi in cammino. Le scuse sono finite, al lavoro.

Ph: Bruno Panieri