Full disclosure: Marco Leonardi è un amico, abbiamo lo stesso editore, perfino la stessa bravissima editor, ma poiché ha scritto un libro molto bello e utile ne parlo e lo consiglio ai miei quindici lettori.
Marco Leonardi è un economista di vaglia e un civil servant, che ha affiancato e gestito direttamente, prima da consigliere economico nei governi Renzi e Gentiloni, poi da consigliere del Ministro dell’Economia Gualtieri nel Conte II e infine da Capo del Dipartimento Programmazione e Coordinamento Politica Economica del Governo Draghi, alcune delle partite più delicate delle politiche riformiste di questo Paese. Governi e stagioni politiche che oggi sembrano lontane lustri, ma che si sono concluse da poco, scherzi di prospettiva della politica.
“Partita doppia. Le scelte della politica tra riforme ed emergenze” (EGEA) è il libro che Leonardi ha appena pubblicato, una sorta di memoriale sulle vicende che hanno portato alla costruzione del più ambizioso piano di investimenti pubblici mai immaginato nel nostro Paese, all’interno di una storica rivoluzione di prospettiva nelle politiche europee: il PNRR. Leonardi era a finco di Gualtieri al MEF durante il Governo Conte e a capo della Programmazione con Draghi, e dunque quei momenti li ha vissuti dall’interno, come testimonia con grande passione e competenza.
La competenza, innanzitutto, rende questo libro una lettura imperdibile per chi voglia farsi un’idea, veloce perché le pagine scorrono molto bene, ma assai puntuale e approfondita di cosa sia questo PNRR, quali siano state le logiche che l’hanno ispirato, quali gli obiettivi e contenuti. E quali le differenze tra i tre governi che l’hanno sinora implementato, o almeno ci hanno provato.
Passione, perché Leonardi è tutt’altro che un algido tecnico, ma un esponente di quella cultura riformista di governo che ha scritto tante pagine di progresso per l’Italia, purtroppo molte più, ci torneremo, di quante siano state lette.
La passione traspare soprattutto dove Leonardi ragiona del PNRR per l’Italia come “una sorta di “ultima spiaggia” per ritornare su uno stabile sentiero di crescita, quando i progetti diventeranno vere e proprie opere di cemento e ferro (accanto ai molti investimenti verdi, come gli impianti di energie rinnovabili)”. E soprattutto traspare nei, invero assai misurati, giudizi politici su questa complessa gestazione e sull’ancor più complessa implementazione del Piano. Che il Governo Conte II ha contrattato con Bruxelles, dicevano gli insider all’epoca con mirabile sfoggio di virtù avvocatesche ad opera dell’allora premier, ma che Mario Draghi ha permesso di far decollare. Aggiungendo ai programmi di investimento di Conte ordine gestionale, dacché “il governo Conte II cominciò a lavorare al PNRR nell’estate del 2020, in modo piuttosto disordinato”, e soprattutto mettendo “i progetti PNRR in mani sicure e competenti”. Di ministri tecnici e di tecnici, tra cui lo stesso Leonardi, capaci, che operavano all’interno di una struttura ordinata, dove l’amministrazione garantiva continuità al di là della politica. Una struttura, ragiona l’autore, che il governo Meloni sta mettendo in discussione, preferendo alla reticolarità draghiana l’accentramento a Palazzo Chigi.
La ricostruzione è credibile e straordinariamente utile, ma alla luce degli avvenimenti successivi non può non suscitare alcune, simpatetiche e problematiche riflessioni, che spero presto di poter fare anche a voce con l’autore.
La prima, invero piuttosto fattuale, è che il PNRR non sta funzionando. Ne ho scritto di recente e non ci torno, ma le cronache ci restituiscono non solo l’affannosa contrattazione con Bruxelles da parte del governo Meloni, ma soprattutto i troppi progetti fermi al palo, soprattutto in quella progettualità diffusa che ha polverizzato sforzi e risorse, si prenda il caso del bando borghi ad esempio. Non credo sia corretto, Leonardi ben inteso non lo fa, altri dall’opposizione sì, gettare la croce sul governo in carica, trovatosi a gestire il Piano nel momento della messa a terra dei progetti, certamente con minor solidità tecnica e incredibilmente minore soft power di quello che avrebbe potuto esercitare Draghi per uscire dalle secche. Che sarebbero state le medesime, perché il Piano ha dei difetti strutturali, di design, che risalgono alla gestione disordinata del governo Conte. Perché, come dicevano le nostre nonne, si sono avuti “gli occhi più grandi della bocca”, rivendicando risorse, per oltre due terzi a debito, che la nostra PA a tutti i livelli non era in grado di metabolizzare e perché si è ritenuto di privilegiare il protagonismo diffuso, encomiabile quanto ingovernabile.
Da qui non solo la pioggia di progetti “tirati fuori dai cassetti dei ministeri”, ma soprattutto il peso di gestione delle progettualità gettato sulle spalle cachettiche dei comuni e delle amministrazioni locali, senza strutture solide di coordinamento (confesso di aver avuto un moto di puro piacere intellettuale al passaggio del libro sul ruolo delle Province per il coordinamento degli interventi di area vasta).
Le fortificazioni, legislative e di capitale umano, erette per dare corpo alle mura fragili delle amministrazioni locali (investite dal PNRR con il compito di una strambata micidiale al centro dei processi di sviluppo dopo decenni di violento ridimensionamento, che hanno lasciato pochi dipendenti, anziani e mal equipaggiati) sono crollate immediatamente, rivelando tutte la fragilità del nostro sistema pubblico. Fragilità sulle quali la burocrazia, dark side di quella che Leonardi incarna, ha costruito rendite di posizione basate sul rallentamento dei flussi che sono ancora ben lungi dall’essere state superate.
Per lungo tempo ho pensato che fossero stati semplicemente compiuti degli errori, che chi aveva scritto i progetti e definito ruoli e responsabilità non conoscesse la macchina, ma il libro di Leonardi mi ha fatto riflettere su un paradosso del riformismo, obbligato continuamente a gettare il cuore oltre l’ostacolo. Un approccio iperrealista avrebbe consigliato di prendere molte meno risorse e di concentrarle su pochi investimenti essenziali (diciamo infrastrutturali, fisici e virtuali) e abilitanti, sui quali i processi di sviluppo avrebbero potuto naturalmente tornare a scorrere. Aveva, e ha, un grande senso, ma si è voluto cogliere l’occasione per spostare più avanti i confini del possibile, definendo nuovi e sfidanti obiettivi. Il riformismo è anche, e soprattutto questo, buttare la palla in avanti e correre per riprenderla, conquistando nuovo campo. Ringrazio Leonardi per aver contribuito con nettezza a ricordarmelo.
Resta, a me lettore culturalmente simpatetico, un cruccio: perché, come già accaduto per l’ottimo governo Gentiloni, il riformismo è uscito così perdente dal giudizio popolare espresso nell’urna elettorale. Cruccio ancor più forte essendo l’azione dell’attuale governo per molti versi in continuità con il precedente.
C’è qualcosa nelle opinioni pubbliche occidentali, non solo in quella italiana, che le rende perennemente insoddisfatte e strutturalmente bovariste, il peggio per chi debba governare con la testa fredda processi di lungo periodo. Ne discende un’amarezza di fondo, evidente anche nel libro precedente, per quello che aveva tutte le carte in regola per riuscire, ma non è riuscito.
Ma di questo parleremo con l’amico Leonardi a voce.