Dopo

Cosa succederà dopo?

Chiusi in casa ormai da giorni (per alcuni, settimane), appesi all’evoluzione di una minaccia invisibile e concretissima che ha terremotato improvvisamente le nostre vite, guardiamo al dopo con un misto di comprensibili, contrastanti emozioni.

Ci sembra lontano, perché dovremo restare a casa e sospendere la nostra vita ancora per parecchio tempo. Vi ci affidiamo speranzosi e pieni di buoni propositi, confidando nella chiusura della crociana “parentesi”. Andiamo dicendo un po’ scaramanticamente che il “dopo” sarà per forza molto diverso dal “prima”, che non si tornerà più indietro.

Mentre i sanitari tengono eroicamente botta e il Governo e chi ha responsabilità di gestione della cosa pubblica prova a gestire l’immediata, frenetica contingenza, chi per forma mentis e attività è portato a guardare al futuro deve pulire e indossare gli occhiali per guardare lontano, oggi più che mai.

Senza millenarismi e con un minimo di scaramanzia, io mi iscrivo alla scuola di pensiero del non sarà più come prima, almeno per molte persone e per molto tempo.

Il sostanziale stop ai movimenti, alle aggregazioni, alle forme di vita sociale, al commercio non di prima necessità, al turismo di fatto determina uno stop all’economia che, nonostante gli ottimi propositi del Governo, non potrà non avere conseguenze profonde e durature e assai difficili da indirizzare. Difficili perché l’economia di un Paese avanzato (ma ancora per molti versi in mezzo al guado) come il nostro ha messo più cose in cielo e in terra di quante ne possa sognare la filosofia, e sostenere la politica.

In meno di due settimane si sono congelati settori chiave per la nostra economia e create le condizioni per una recessione durissima, con un conseguente impoverimento di fasce molto larghe della popolazione, inclusa molta parte di quella “classe creativa” (consulenti, professionisti, tecnici, operatori della cultura, ecc.), urbana, colta e dinamica che sino a pochi anni fa rappresentava per se un elemento di sviluppo.

Per molti lavoratori autonomi, come per molte micro e piccole imprese, dipendenti dal cash flow e strutturalmente “equilibristi” finanziari, né i necessari differimenti delle scadenze fiscali, né un sostegno ai redditi crollati che copre meno del 30% del reddito spesso derivante da più lavori, potrà lenire la botta.

Per chi ha scommesso sul moto perpetuo dell’economia, le prospettive sono diventate di colpo nerissime. In questa attenzione alle partite IVA e alle micro e piccole imprese non c’è nessuna intenzione di dimenticare le altre categorie sociali vittime della crisi. C’è però un’esigenza forte di rimarcare il suo carattere pervasivo e impossibile da combattere con armi ordinarie e ristrutturazioni post cataclisma che si concentrino solo sulle facciate e il fatto che una sua soluzione rapida e ordinata riguarda tutti, anche coloro i quali si ritengono garantiti e al massimo lamentano le restrizioni alla vita ordinaria.

In meno di dieci anni, la crisi (finanziaria) del 2008 ha prodotto onde telluriche di malcontento che hanno portato a fenomeni politici estremi, come la Brexit, di spaventosa violenza, vastità e persistenza. Il double dip di una nuova crisi improvvisa e pandemica su un corpo democratico (in quasi tutto l’Occidente) già affaticato rischia in futuro di produrre effetti esiziali per l’ordine democratico e liberale: malcontento che diventa disperazione sociale, ostilità alla globalizzazione che diventa nazionalismo, matrimonio scellerato tra diffidenza nella democrazia e statalismo. Coloro i quali oggi chiamiamo “populisti” e imprenditori dello scontento (individuale, territoriale, corporativo), domani potrebbero essere rimpianti come moderati critici dell’assetto liberale, sostituiti da leader più estremi, violenti, spregiudicati sorretti da un consenso forte per sabotare la democrazia.

Mai come oggi, chi non è nelle prime linee di contenimento sanitario ed economico della crisi ha il dovere di contribuire con lo studio e le idee a immaginare come potrà essere il Paese dopo, per non lasciarci travolgere dagli eventi e ricominciare di corsa, per farlo più bello di prima, per regalare a tutti una prospettiva, lenimento necessario in questa fase di doloroso smarrimento.

Proverò io a iniziare il gioco, tratteggiando in ordine sparso alcuni elementi del dopo che vorrei sulla base di quello che sta accadendo e può ragionevolmente accadere. Nessuna profezia da mago, nessuna avventura in campi che non mi sono propri, nessun sogno irrealizzabile, solo elementi di un affresco che spero possa comporsi con il contributo di tanti. Non parlerò di fenomeni macro, di Europa e altri temi da grande politica, ma di cose che stanno su quel livello intermedio, tra Bruxelles e l’uscio di casa nostra, che sono stati a lungo negletti e non governati, e che domani dovranno trovare una nuova attenzione. Sono elementi del dopo tutti positivi, un po’ perché sono ottimista di natura, un po’ perché penso si debba lavorare con grande energia per piegare la realtà come nei momenti più bui della Storia, un po’ perché a mettere le parti noir ci sta pensando già la vita.

  1. Nuova tecnologia: la crisi ha sdoganato il lavoro agile e a distanza e ha reso i servizi digitali, dal commercio elettronico all’education, dal business all’intrattenimento, parte integrante della vita di molte più persone rispetto a prima. È ragionevole che questo numero aumenterà e soprattutto che non si tornerà indietro. È una buona notizia per i nostri strutturali ritardi nella diffusione delle tecnologie, ma deve essere governata, per non diventare ulteriore ragione di esclusione e crisi per imprese, lavoratori, cittadini. Servono infrastrutture, servizi e competenze diffuse in tutta la popolazione. Nessuna impresa, anche di prossimità, potrà permettersi di ignorare una propria presenza digitale, per quanto basica. In un Paese di anziani e di microimprese questa innovazione si governa con la diffusione di competenze e la servitizzazione di quei processi che le imprese e i cittadini non sono in grado di gestire in autonomia. Come ha notato un osservatore autorevole come Vittorio Colao, la crisi ha anche ridefinito il tema del digitale rispetto al tema del lavoro, riconducendolo al ruolo più corretto di supporto al lavoro umano, elemento base del valore per ogni organizzazione. Accanto agli stimoli, necessari, agli investimenti hard delle imprese, dovrà essere sviluppata una fattiva attenzione a tutti quegli strumenti e quei soggetti che possono garantire un allargamento del perimetro dell’innovazione digitale, l’esclusione dal quale sarà ancora più sinonimo di marginalità. Molti esponenti di quella classe creativa, che oggi si trova a fronteggiare un concreto rischio di disoccupazione prolungata, potranno trovare in uno sforzo organico di diffusione di competenze e servizi innovativi nel Paese opportunità di rimettersi sul mercato. Anche per quelle imprese che forse riapriranno grazie agli aiuti dello Stato ma che rischiano di non andare lontano, l’innovazione potrebbe fare la differenza nel loro destino. In questi giorni assurdi, il digitale è anche il filo che ci tiene uniti, colleghi e familiari lontani. Lo si deve tenere a mente, perché anche grazie ad esso si possano ricostruire comunità periferiche nelle quali riportare la sanità, il cinema, la socialità, il lavoro.
  2. Nuova territorialità: la crisi del Coronavirus nasce a Wuhan, per me non-luogo della Cina delle megalopoli dove convivono dimensioni monstre, ipermodernità, arcaismo, autoritarismo e ha preso la forma di mostro che ha oggi a Codogno, placida e grassa campagna padana. Se la crisi del 2008 era in tutti i sensi immateriale e a-territoriale, questa è fatta di confini (difesi e che saltano), di distanze (colmate velocemente e misteriosamente), di prossimità (costretta e riscoperta). La crisi e il morbo che la causa si spostano fisicamente, dando una sensazione molto diversa del valore dei luoghi e delle distanze. Anche la mancanza di mascherine, ormai prodotte in Cina ha dato plasticamente il senso che l’idea della globalizzazione come una grande linea della metropolitana non teneva in un momento di crisi come questo. Per un lungo periodo di tempo molte imprese, con il concorso di decisori, studiosi e tecnici, hanno pacificamente considerato la delocalizzazione produttiva, anche estrema, come un dato inevitabile. Oggi ci accorgiamo che quel processo ha delle esternalità negative, occupazionali, ambientali, sociali e politiche, di gestione di emergenze come questa. È anche cambiata la tecnologia, che oggi incoraggia produzioni più contenute nei numeri, a maggior valore aggiunto, meno impattanti. Tutto questo ridefinisce e ridefinirà il nostro interesse nazionale. Balvano, il paese della Basilicata che con l’apertura della produzione di Nutella Biscuits nella fabbrica Ferrero permette di dare lavoro a 1500 persone, che tornano addirittura a fare figli al Sud, fa pensare che forse una nuova priorità di politica economica sarà riportare a casa tutta la manifattura possibile (ossia sostenibile, con un mercato, che crea occupazione buona). Riportare la manifattura a casa deve essere anche parte di uno sforzo, patriottico, di manutenzione del Paese che prenda le mosse dalla scoppola che stiamo vivendo anche per dirottare risorse sulla nostra provincia che non può diventare periferia, sul mantenimento di sistemi produttivi locali che non devono morire perché l’alternativa è il nulla, sul contrasto allo spopolamento fatto di idee, lavoro, servizi, cose da fare.
  3. Nuova statualità: io sono politicamente un figlio degli anni ’90, della Terza Via, ossia di quella corrente di pensiero che immaginava il Mercato come non più in discussione e concentrava gli sforzi nel renderlo più umano e includente. Il ruolo dello Stato era in questa visione quello al massimo di regolatore intelligente, di “arbitro all’inglese” che lasciava giocare e fischiava poco. Oggi, anzi da tempo, ammetto che quel modello ha perso prima politicamente, poi culturalmente, e che la sconfitta diventerà dopo disfatta totale. Lo Stato avrà, con un consenso crescente, un ruolo sempre più sostantivo nell’allocazione di risorse, nel sostegno all’economia e alla società in crisi, nell’indicazione di linee guida per il Mercato e le imprese, nel rapporto a tutti i livelli con altri Stati. Credo che il tema qui non sia contrastare questo allargamento della sfera d’influenza dello Stato (che sarà posizione minoritaria), ma contenerne le spinte che potrebbero soffocare in culla una futura ripresa con le armi solite della burocrazia, dell’eccesso di fisco, dell’assistenzialismo improduttivo, della eccessiva attenzione a lobby rapaci e aggressive. Similmente, sarà necessario vigilare perché il bene inalienabile della democrazia non subisca a causa dell’emergenza ferite difficili da rimarginarsi.
  4. Nuova comunità: l’altro giorno un amico mi raccontava per telefono che alcuni fondi speculativi esteri hanno già avviato attività di scouting in Europa per acquistare a prezzi di saldo immobili di pregio e aziende in crisi. Stupidamente mi sono stupito, ma non c’era nulla di cui sorprendersi. Funziona così e così continuerà a funzionare, ma rischieremo di farci molto male se non attiveremo forme di organizzazione della produzione che contrastino questi fenomeni rafforzando il bosco, le nostre comunità. Ci faremo male perché non abbiamo più anticorpi e rischiamo di essere stritolati fra una finanza rapace e l’imprenditoria della disperazione. Mutualismo, cooperativismo, impresa sociale, capitalismo paziente, attenzione all’impatto delle iniziative economiche, se coniugate con l’innovazione, possono essere un presidio fondamentale per chi continua a credere allo sviluppo ordinato, liberale e democratico. La spinta alla vicinanza e alla solidarietà di questi giorni non deve essere dilapidata, ma diventare il lievito di un nuovo rapporto di tutti, cittadini e operatori economici, con la comunità.
  5. Nuovo governo: la crisi economica porterà con sé crisi di idee e di entusiasmo, che devono fare ancora più paura perché tolgono energia e speranze. Lo Stato può contribuire alla ripresa con le politiche e le risorse, ma queste potranno poco e per poco se non accompagnate da visioni e idee, oltre che dall’empatia necessaria a interagire con le persone in difficolta, fare emergere bisogni, sperimentare risposte. Accanto ai Commissari e alla Autorità, che si occupano di gestire l’emergenza e quello che seguirà in termini di interventi e investimenti pubblici, servirebbe anche una task force per raccogliere e sistematizzare bisogni e idee, preservando il fondamentale “dopo” dall’essere ucciso in culla dal “subito” fatto di ansia, concitazione, lavoro frenetico, tutela degli interessi. Non è un vezzo, non sono le brioche di Maria Antonietta, ma la netta percezione che se il dopo sarà diverso dal prima dovremo almeno provare a renderlo anche migliore.