L’estate è il momento in cui viaggiatori e media si accorgono e ragionano su quanto il nostro Paese sia pieno di anfratti, di nicchie di bellezza pochissimo conosciute e su come purtroppo la gran parte di questi piccoli tesoro naturali, storici e architettonici, partecipi di crescenti e sempre più violenti fenomeni di spopolamento.
Da un lato, città e mete turistiche di grido si confrontano con l’esigenza di governare flussi turistici sempre più abbondanti nei numeri ed estrattivi di risorse estetiche, abitative e sociali, quell’overtourism che riduce i centri storici a palcoscenici di esperienze scadenti e mordi e fuggi, inaridendo la vita quotidiana degli abitanti. Dall’altro lato, il resto: luoghi pur ameni e di pregio, o anche solo comunità un tempo vive, che perdono abitanti, economie, servizi, funzioni e diventano “un peccato”, qualcosa di cui dolersi, o cercare di occuparsi. Sinora con pochi, spargoli risultati.
È importante ragionare sulle macro-cause di questi fenomeni innanzitutto per comprenderne le dinamiche, e immaginare possibili soluzioni (e soprattutto per non perdere e fare perdere tempo con suggestioni affascinanti ma vuote di senso).
Per quanto vadano in direzioni opposte, i due fenomeni sono fortemente collegati e condividono una matrice comune, la radicale interruzione di dinamiche economiche e sociali consolidate e la loro sostituzione con l’alea del Mercato, violento e fluido come il magma che non si è ancora solidificato.
Le città dell’overtoursim sono il risultato dello svuotamento di quelle dinamiche economiche e sociali che favorivano un equilibrio sano e vitale tra la sfera del locale e quella della fruizione dall’esterno, dove la prima era comunque preponderante. Si visita Roma da secoli, ma una volta i turisti dovevano adattarsi agli abitanti, che lì risiedevano perché lavoravano e partecipavano di dinamiche urbane e di un’economia innanzitutto al loro servizio, mentre oggi è sempre più il contrario. Senza il propellente della manifattura diffusa, fattore insostituibile di sviluppo ordinato, le dinamiche economiche e sociali consolidate hanno lasciato il posto a un “si salvi chi può” in cui prolifera, appunto per chi può, il doping della rendita. È un piano inclinato assai arduo da governare, se non favorendo il retake della città da parte del “locale”, sempre più difficile per le dinamiche economiche e demografiche sfavorevoli che nel frattempo si sono dispiegate.
I luoghi che si svuotano sono anch’essi, innanzitutto, luoghi che hanno perso la loro funzione originaria e che, a differenza delle città, non hanno sufficiente dinamismo, massa critica e fortuna per reinventarsela, nemmeno nella forma iniqua e stereotipata dello sfondo per i selfie degli overtourist.
Ragionare di funzione non è una bestemmia, dacché nessuna comunità è stata nata senza poter sfamare i suoi abitanti, adempiendo a funzioni agricole, commerciali, produttive, militari e la storia e la geografia sono piene di fiorenti capitali di cui rimangono solo le macerie perché era crollata l’economia che le sosteneva e gli abitanti le hanno abbandonate. Per buona parte delle nostre aree remote, dei paesi vuoti (non le chiamo aree interne, perché è una nomenclatura legata a un’idea di sviluppo e funzione dei luoghi tanto generosa quanto poco efficace) il tema è innanzitutto questo: non c’è più una dinamica economica e di lavoro sufficiente a garantire agli abitanti condizioni di vita non punitive, con il risultato che restano quasi solo gli anziani e certamente la comunità, senza lavoro, non cresce.
Partire dai servizi e dagli investimenti pubblici come panacea dei mali è un errore che troppi tendono a riproporre, per romanticismo o ideologia. Certo, la chiusura di un punto nascite o della scuola elementare hanno una forza simbolica dirompente, sono il crollo del tetto in un edificio abbandonato, il punto di non ritorno. Prima del crollo però ci sono campi incolti, bosco che avanza, fabbriche e botteghe chiuse, istupidimento piccolo borghese a base di centri commerciali e aree artigianali che tenessero la vita fuori dal salotto buono, ora vuoto, del centro. E c’è anche una borghesia locale che scommette contro gli stessi luoghi in cui risiede, investendo i propri capitali in appartamenti a Milano e mandando i figli a studiare e a vivere il più lontano possibile.
Il bandolo della matassa sta nell’economia, nel lavoro, nella capacità dei luoghi e delle loro esternalità di migliorare la vita di chi ci vive, e di fare aspirare chi non ci vive ad insediarvicisi. Dove non c’è più economia, restano gli anziani, i marginali, gli eccentrici con tendenza all’eremitaggio, chi se lo può permettere. Tutta materia buona al massimo per un bello storytelling, ma nulla che cambi la dinamica, come non l’ha cambiata l’illusione che la pandemia avesse intaccato lo strapotere delle città e la fondamentale stanzialità del lavoro in Italia, riportando frotte di lavoratori della conoscenza a vivere nei paesi lavorando da remoto.
La via obbligata, ovviamente assai tortuosa, è invece quella di ricostruire delle funzioni economiche che sostengano una demografia più clemente e dunque il mantenimento di una comunità vera, che non sia sfondo per i turisti. Dove questo è possibile, perché non tutte le energie sono spente, altrimenti bisogna imparare a lasciare andare, grati a chi si compra un paese per farne un albergo diffuso, se l’alternativa è che vada in malora.
Dove invece c’è ancora un barlume di energia bisogna avere il coraggio di osare, oltre l’attuale logica minoritaria dei progettini, e ragionare di una visione di ripopolamento delle aree vuote attraverso la loro, democratica, volontaria e incentivata, ricolonizzazione, che deve seguire la logica imperante di tutte le colonizzazioni, da che mondo è mondo: andare a stare meglio di come si stava prima. Agricoltori, silvicoltori, artigiani sono gli unici motori che possono far ripartire almeno quel pezzo dell’Italia remota in corso di spopolamento e sempre più radicale marginalizzazione, sovvertendo una demografia feroce e che andrà sempre peggio. Non è una visione passatista, ma il contrario: perché avranno bisogno di tecnologia, innovazione e connessioni veloci e perché dal ripopolamento e dalla cura del territorio passa la sfida più realistica al cambiamento climatico, che deve essere fatta di nuovi modi di produrre e di territori non abbandonati.
Come è successo nel corso dei secoli, molti di questi coloni avranno anche nomi, accenti, lingue e costumi diversi da quelli locali, bisogna farsene una ragione e studiare la storia. Del resto, chi girà l’Italia di provincia sa che già oggi il caffè e la birra che si bevono al bar del paese, la pizza o i piatti tipici che si mangiano nell’unico ristorante aperto, per non parlare di tante perle tipiche del Made in Italy, sono prodotte, servite e consentite dal lavoro di stranieri che permettono a molte comunità di non morire di vecchiaia.
Anche l’apparente opposto dello spopolamento, appunto l’overtourism, si contrasterà di più e meglio con il locale (o il neo locale) che riprende vita, permea di lavoro gli edifici vuoti, scansa i venditori di carabattole perché servono bar normali e ferramenta.
Mai come in questo caso “carmina non dant panem”, le giaculatorie sul bel tempo che fu ormai non funzionano se non per vendere qualche libro o organizzare qualche festival in luoghi che tutti ci dimenticheremo. Bisogna riportare la vita, anche complicata come è sempre stata, dove tutto congiura perché non ci sia più.