Dario Pegoretti è stato uno straordinario creatore di telai da bicicletta, un maestro riconosciuto in tutto il mondo, in grado di unire competenza tecnica sopraffina a estetica da artista contemporaneo. Sedere sul suo divano nella sede di Verona e sentirlo parlare in trentino, italiano e inglese di come era andata a Taiwan o delle prospettive del mestiere è stata un’esperienza che ricorderò per sempre e la sua scomparsa improvvisa nel 2018 ha lasciato una voragine non solo nella sua azienda, ma nell’intero mondo della bicicletta.
Poiché era un artigiano evoluto, rude ma amatissimo, Dario Pegoretti aveva lasciato un allievo prediletto, Pietro Pietricola, che insieme a Cristina Würdig, manager di grande esperienza nel mondo bici, hanno saputo affrontare quella che per molti artigiani è una tragedia definitiva e fare dell’Officina Dario Pegoretti una bottega con delle radici ma con un grande futuro.
Un futuro che, come per la quasi totalità delle aziende dal Made in Italy passa dal capitale umano e dalla qualità delle sue competenze. Si tratta di un tema che è sempre stato di straordinario interesse per imprese che si fondavano sul saper fare (telai di bicicletta, ma non solo) di una qualità tecnica ed estetica, unita alla più totale e accogliente personalizzazione, tale da proiettare anche aziende molto piccole su palcoscenici internazionali grazie a chi vi lavorava. Un tema che il combinato disposto di lunga transizione post pandemica e crisi demografica oggi sta trasformando in uno dei principali freni allo sviluppo. Mancano lavoratori, competenze, braccia educate, e mancano in misura ben maggiore di quante si riescano a coinvolgere, formare, trattenere.
Qui la tecnologia, innanzitutto il 4.0 per quanto riguarda la manifattura, deve intervenire sapendo che si sta sul filo di un rasoio: non si può automatizzare tutto l’automatizzabile, come farebbe l’industria, ma intervenire per reingegnerizzare alcuni processi a sostegno della creatività e dell’artigianalità, salvaguardando e anzi esaltando la componente umana del lavoro. Nel caso di Pegoretti, la sfida tecnologica riguardava la possibilità di rendere più agevole (in nessun modo facile, non lo è) e soprattutto trasmissibile il processo di saldatura per creare il telaio, oggi affidato all’esperienza decennale del telaista che sa leggere l’acciaio e capire dove applicare la giusta quantità di calore per saldare senza bruciare. Un’arte che oggi è possibile rendere più accessibile anche a maestranze che sanno quello che fanno ma hanno un’esperienza minore.
Non si tratta di sminuire l’artigianalità, ma di immaginare come farla evolvere in un contesto, già presente, nel quale il capitale umano sarà una risorsa scarsa e, dal lato positivo, i giovani possono apportare al capitale dell’esperienza il moltiplicatore della tecnologia.
È quello che gli studenti dell’ITS Maker di Bologna hanno cercato con ottimi risultati di fare trasformando il tradizionale casco da saldatore in un visore per la realtà aumentata, in grado di monitorare in tempo reale i parametri più rilevanti per determinare la quantità di energia (e dunque di calore) da impiegare nella saldatura delle diverse componenti del telaio. Sapere le caratteristiche della porzione di telaio su cui si sta lavorando permette anche a un telaista più giovane di saldare minimizzando gli errori, una cosa importante.
Il progetto, presentato qualche giorno fa nella sede di UniCredit a Milano, è stato realizzato nell’ambito di un bando della Fondazione Cariverona rivolto alle PMI del territorio per progetti di innovazione svolti in collaborazione con ITS di tutta Italia, con la curatela e regia di Upskill 4.0, spin-off di Università Ca’ Foscari Venezia, società benefit e partecipata da UniCredit.
Upskill promuove e realizza progetti di innovazione 4.0 mettendo insieme PMI italiane e studenti degli ITS, attraverso la metodologia del design thinking, che consente di progettare soluzioni innovative in presenza di bisogni poco codificati ed esigenze “deboli”, ossia il contesto della stragrande maggioranza delle piccole e medie imprese italiane. Lo stesso bando ha sostenuto anche altri progetti (l’applicazione di soluzioni di economia circolare e di e-commerce a un’azienda tessile e a un’azienda di design, la digitalizzazione dell’esperienza di acquisto in un vivaio di piante), accumulati dalla dimensione contenuta delle imprese e dal contributo, non solo in termini di informatizzazione, ma di evoluzione digitale di prodotti e processi, da parte dei ragazzi e delle ragazze degli ITS.
Ecco, se devo immaginare cos’è questo 4.0 per il Made in Italy nel 2023, ossia nell’epoca della doppia transizione da realizzarsi a fronte della scarsità strutturale del capitale umano, del futuro penso innanzitutto a uno scambio tra valori solidi e storici (il saper fare, lo heritage, la qualità) e nuovi valori, come l’attenzione alla sostenibilità, l’apertura culturale alle novità, il pensare e fare digitale. Dove questi piani riescono a dialogare, succede la magia.
Potrebbe trattarsi anche della componente più veramente “italiana” del 4.0, quella che prende una visione globale e la innesta sul corpo vivo e nel cuore del nostro ubi consistam manifatturiero, le persone, il sapere, le relazioni tra loro e l’ambiente in cui operano, gli ecosistemi naturali di conoscenza.
Un nuovo programma 4.0 per le imprese italiane, su cui il Ministro per il Made in Italy Urso ha detto di essere al lavoro, deve partire anche da qui: non solo dalla tanto decantata “centralità del capitale umano”, ma dalla ben più ambiziosa visione di modernizzare il nostro sistema produttivo (che altrimenti rischia l’inedia) accostando competenze, esperienza, visioni, soluzioni, tecnologia, con lo stesso spirito di innovare per salvare di quel casco da saldatore. Avendo la lungimiranza di pensare che un ventenne abbia anche qualcosa da insegnare, oltre che molto da apprendere.
La sfida è grande e complessa, ma necessaria. Soprattutto, dopo avere visto questi ragazzi all’opera, l’ottimismo è di rigore.