Torino, Milano e il dovere dell’ambizione

Il Professor Carlo Ratti in un’intervista sul Corriere ha auspicato un’accelerazione dell’integrazione tra Milano e Torino, suscitando la pronta reazione dei territorialisti che vedono il capoluogo piemontese più orientato a un ruolo di integrazione urbana di quello che gli gravita attorno, per farne una piccola Lione delle Alpi.

Hanno tutti un po’ ragione e il merito non banale di avere alimentato un dibattito anche polemico ma non stupido in un’estate che invece ha elargito a piene mani polemiche idiote e idee tossiche, tant’è.

Tornando a noi, Ratti ragiona come sempre con l’occhio e la visione del globalista, a suo agio nel Secolo delle città e con le sue regole. Diversamente dal calcio, nella competizione globale fra metropoli è già da tempo attiva una Superlega, alla quale ci si può iscrivere sulla base delle dimensioni e della capacità di produrre, attrarre e trattenere talenti, capitali, e quello che si crea mischiandoli: innovazione. Più denso è il brodo di coltura dei talenti, più saporito e vario sarà il piatto. Ecco perché le città, occidentali e asiatiche, crescono a ritmi vertiginosi e se rallentano rischiano di deperire.

Milano ha scelto con decisione di partecipare a questa competizione, ma ha dei punti deboli. Non ha, sia chiaro, rivali in Italia per concentrazione di risorse, ma è decisamente troppo piccola per giocarsela alla pari con le grandi metropoli: ha troppo pochi abitanti ed è troppo piccola. Troppi pochi abitanti significa una finitudine di risorse che non va bene nella Superlega, un territorio troppo piccolo significa che la crescita è costantemente castrata, come dimostra la vicenda dei costi degli immobili che rischiano seriamente di interrompere i meccanismi di attrazione (alla città non servono solo ingegneri e finanzieri). Ci sarebbe anche da lamentare un certo provincialismo di chi governa Milano senza riuscire a uscire nemmeno dai confini del Comune, ma stiamo parlando d’altro.

L’integrazione di Milano in un contesto più ampio e la sua crescita dimensionale e territoriale è dunque un presupposto igienico per la sua minima competitività nel campionato alla quale si è iscritta, sola italiana che può parteciparvi (non menziono la Capitale amministrativa del Paese per ovvie ragioni). Sono solo fatti di Milano? Assolutamente no, come dimostra l’impatto sul Paese che avrebbe il progetto (a proposito, che fine ha fatto?) del Polo europeo di Intel sui Microchip, pensabile solo se si è iscritti alla Superlega.

Ecco allora che ha senso, senza sciocchi campanilismi da parte di nessuno, che si ragioni su una visione integrata del futuro delle città con al centro Milano, ma che guardi lontano ad ovest, a est e a sud, sui percorsi di quell’alta velocità ferroviaria che già porta migliaia di residenti a Torino, Verona, Bologna a lavorare a Milano con abbonamento ferroviario giornaliero. Ma ragioniamo più largo, ben oltre Milano come magnete, cosa che naturalmente sollecita reazioni di campanile. Proviamo a unire il VenTo con la città infinita emiliana di Aldo Bonomi e, sognare non costa nulla, colleghiamoci anche la bella addormentata sul Mar Ligure, quando sarà finalmente dotata di connessioni civili con la pianura padana. In un’isocrona di due ore di treno avremmo una concentrazione di talenti, intelligenza e bellezza senza pari, più di venti milioni di persone, un’area molto più grande di Londra, con università che coprono lo scibile umano, una biodiversità millenaria, una capacità di produzione e innovazione straordinarie.

Il tutto da spendersi nella Superlega, ovviamente, ma anche per la crescita del resto, dalla montagna cuneese all’agricoltura calabrese, passando per la manifattura marchigiana. Tutte queste hanno bisogno di lavoro, competenze e innovazione, nessuna di queste è in grado di autoprodurli e dunque avrebbe bisogno di connettersi con un hub amico, che parla la stessa lingua.

Questo mastodonte, che dovrebbe avere strumenti di governo ben più innovativi e sofisticati degli attuali fucilini dei comuni e delle regioni (peggio se governate in una logica bassamente localistica), dovrebbe sapere che la sua competitività passa anche per quella del contenitore linguistico/culturale a cui appartiene e lavorare con grande lena (non mancherebbero energie, intelligenze, capitali) per fare crescere quello che sta attorno.

Qui sta la differenza con il pensiero globalista di Ratti e la ragione dei territorialisti: la città veramente infinita che andrà da Genova a Venezia passando per Torino, Milano, Bergamo, Brescia, Modena, Bologna, Verona, Vicenza, Treviso dovrà essere anche piattaforma per tutto quello che grande, globale, iperveloce non è. Non una massa indistinta, ma un reticolo di identità, specializzazioni, attenzioni alle aree interne come risorsa. Un luogo che, come è di fatto sempre stato per l’Italia, ha una identità forte che però, vista da vicino, si comprende essere un mosaico di micro-identità, tolte le quali il ritratto complessivo decade.

Non è semplice, ma si può fare, con il coraggio e la visione richiamate da Paolo Verri nella sua bella intervista, che scioglie con eleganza la querelle. E, aggiungo io, con ambizione, perché soprattutto i più piccoli e apparentemente più fragili hanno il dovere dell’ambizione. Ambizione che dovrebbe portare chi sta funzionalmente fuori dalla città infinita a organizzare il suo campionato, con le sue risorse, per essere un posto in cui vivere anche molto bene al ritmo diverso da quello delle metropoli. Io lo chiamo economia paziente.

Insieme, Supercittà e campionato dell’economia paziente ci renderebbero il posto dove tanti, in primis chi scrive, sognerebbero di stare, tornare, rimanere.