La Calabria è una regione sorprendente, che può essere molto lontana dagli stereotipi di luogo perso che le si affibbiano da lontano, o confermarli violentemente.
L’abbiamo visitata con mio figlio Tommaso lungo la sua spina dorsale, percorrendo in bicicletta quella meraviglia che è la Ciclovia dei Parchi della Calabria, 630 km di foreste incontaminate, paesi arroccati e pochissime persone.
Anche la Calabria è infatti un luogo vuoto, in complessivo spopolamento, a cui si aggiunge una spiccata tendenza all’inurbamento: la montagna e i paesi si svuotano e le persone vanno a vivere sulla costa e nei centri urbani.
È questo il tratto più forte del processo lacero di modernizzazione della regione, e oltre: l’abbandono dell’assetto sociale e abitativo rurale, dei paesi e dei loro centro storici in favore di quello di città medie, che però denunciano tutti i loro limiti estetici, funzionali, sociali.
La Calabria, spesso additata a esempio deteriore principe di devastazione urbanistica, è assai integra nel suo osso, quanto poco lo è nella sua polpa. Sono le città, molta parte di esse, e le zone costiere dell’assalto del benessere e del turismo di massa ad essere principalmente devastate dall’orrore del non finito, del mal finito e del brutto, inteso come povero e privo di identità.
Significativamente, mi spiega un Virgilio locale, architetto che ha molto riflettuto su questi temi, la cesura architettonica (l’architettura è il primo e principale elemento di straniamento in molti luoghi in Calabria) è anche e innanzitutto una cesura con il passato in termini di materiali e stili, su tutti l’abbandono della pietra per il cemento armato e i mattoni forati, onnipresenti. A negare, quasi a espettorare, l’integrità agro-silvo-pastorale dell’osso della Calabria, c’è dunque un tentativo già vecchio di modernizzazione senza identità né progetto, imitazione nata vecchia e sghemba di chissà cosa, mentre quello che non è stato investito da questa foga è ancora lì.
Sono ancora lì anche alcuni tratti culturali, non parlerò di quelli più tristemente noti anche perché non si percepiscono in alcun modo, di un’Italia premoderna e di Provincia: l’attitudine ai rapporti umani e la curiosità per i viaggiatori, che genera small talk spesso assai interessanti, una gentilezza non affettata e soprattutto un localismo e un’attenzione all’identità entro confini di prossimità impensabili nel Secolo delle città. Una nostra accompagnatrice ha riconosciuto un suo compaesano (di un paese a 20 km di distanza da dove eravamo) dall’accento; alcuni prodotti, anche molto interessanti, come certe bevande al bergamotto e la Brasilena al caffè, che spariscono dagli scaffali e dalla conoscenza varcato il comune o la provincia; la territorialità estrema dei sistemi di potere regionale.
Allora, pedalando per i monti della Calabria, pensavo una cosa che vale qui come per gran parte del Mezzogiorno e della Provincia italiana: la modernità, come l’abbiamo conosciuta alla fine non troppo tempo fa, con la cittadinizzazione come destino, il cambiamento come costante, la progressione come obiettivo, la creazione di valore capitalistico come valore primario, non gli si attaglia. Il tentativo, non solo ovviamente legittimo, ma pressoché privo di alternative, di agganciare la modernizzazione mainstream del Mezzogiorno all’interno di quella dell’Italia in Europa è risultato in una sonora sconfitta, economica, culturale, sociale, demografica.
Non ce l’ha fatta la Calabria, non ce l’ha fatta il Sud, non ce l’ha fatta, o è sembrata farcela per poi perdersi, tanta parte della Provincia italiana. Forse non avrebbe mai potuto farcela, ma l’idea che ci fosse un solo modello a cui agganciarsi è stata troppo forte e troppo a lungo. Perduta la battaglia, ci troviamo con un Paese sfrangiato.
La parte più negativa del pensiero da grimpeur è che qui la modernità novecentesca e dei primi anni duemila non ha semplicemente possibilità di attecchire, se non producendo pochissime e precarie isole felici e tantissime scorie, metafora delle quali è una spazzatura onnipresente, indecente e aggressiva nei centri urbani e periurbani, a perenne monito di un sistema di vita così poco sostenibile da gettarne le scorie senza decenza addosso agli stessi che le hanno prodotte.
Bisogna inventarsi qualcos’altro, non a tavolino, ma cogliendo i segni grandi e piccoli di questa terra silenziosa e parlante.
Per capirci di più, abbiamo deviato il nostro viaggio per una sosta a Soveria Mannelli, un comune di nemmeno 3000 abitanti in provincia di Catanzaro sulla strada che porta alla Sila e che rappresenta una felicissima eccezione in questa gara persa contro la modernità. Non siamo i primi ad arrampicarci fino a questo paese della pre-Sila per raccontare una storia che forse si potrebbe intuire già da un nitore non comune. Soveria Mannelli è stata oggetto di studi di economisti, interesse della politica nazionale di ogni colore e articoli ammirati della stampa internazionale perché, in una regione dove impresa e occupazione sono concetti assai faticosi, mantiene da anni tassi di imprenditorialità da Nord-Est. Una felice eccezione, di cui si era accorto anche Fabrizio Barca, che ne aveva fatto un dei test site principali della Strategia delle aree interne “che non ha prodotto niente”, mi dicono in coro tutte le persone con cui ho parlato, ma senza rassegnazione, ché la politica in tutte le sue forme non è mai stata il driver principale del miracolo di Soveria.
Miracolo alla cui base vi sono tre imprese principali, molto diverse tra loro (non ci sono distretti qui). Principali, ma non le uniche, come si intuisce da un’aerea industriale in piena efficienza e dalle vie piene di negozi diversi, regolarmente aperti.
C’è un raffinatissimo editore-stampatore, Rubbettino, con un catalogo che spazia da Friedrich von Hayek ai giovani scrittori calabresi (con tantissimo in mezzo) e una stamperia 4.0. C’è un produttore di banchi e arredi per la scuola, la Camillo Sirianni, da cui partono camion che si arrampicano per la Statale 19 “delle Calabrie” (che Calabrie al plurale sono in effetti) per arredare scuole e università in Europa, nel Golfo Persico e persino in Polinesia. C’è la più antica tessitura della Calabria, il Lanificio Leo, rilanciato da Emilio Salvatore Leo, architetto e designer (e mia guida principale nel miracolo di Soveria), che, usando il design come strumento strategico, crea coperte, sciarpe e altri prodotti molto eleganti, straordinariamente contemporanei e pieni di poesia, ancorché ancorati a questa terra.
Sono tre aziende molto diverse, dacché come si diceva non vi è a Soveria un distretto, né una particolare densità produttiva settoriale. Sono anche tre aziende molto italiane nel senso più concreto, e meno bocconiano, del termine: sono familiari, ci sono le facce degli eredi dei fondatori, che hanno fatto crescere tanto imprese piccole (Sirianni nasce come segheria, Rubbettino era un tipografo, Leo un “frantoio” della lana fra i tanti che lavoravano la produzione delle famiglia dell’ora quasi estinta pecora silana) nate agli inizi del secolo scorso da fondatori geniali; funzionano bene, non pasticciano con la finanza, né con artifici societari; sono radicatissime sul territorio, che una volta era stato dell’arte nei collegamenti viari, oggi certamente periferia logistica; danno lavoro, scontandone i limiti di attrattività, alla comunità locale, rallentando lo spopolamento che viaggia a ritmi di metà di quelli della regione; sono nate ben prima della Repubblica, non per qualche 488 o altro, qui quasi sempre fallimentare, strumento di politica pubblica per fare germinare terreni imprenditorialmente sterili.
Soveria Mannelli, che è comune garibaldino e la cui toponomastica tradisce una passione per gli alchimisti e l’esoterico (c’è anche una via Borges), è anche una comunità capace di grande innovazione e raffinatezza intellettuale. Florindo Rubbettino ed Emilio Leo (che di Rubbettino è anche direttore creativo) sta lavorando alla creazione di un museo-incubatore di impresa dedicato alla manifattura del futuro, secondo un visione del “fare” estremamente avanzato, oltre che di un parco d’arte contemporanea che ospiterà opere di artisti internazionali dedicate al tema della stampa e dell’editoria. Anche il digitale, dimensione oggi non aggirabile anche per scollinare virtualmente dai confini delle montagne, è arrivato a Soveria Mannelli per cittadini e imprese in tempi non sospetti, grazie a un Sindaco, amato e ferocemente criticato come è il destino di tutti gli amministratori di piccole comunità, che alla fine del secolo scorso si è inventato una kermesse estiva e numerose iniziative che hanno donato a questa comunità operosa una solida base di cultura immateriale e una familiarità felice con un’idea molto cosmopolita di bellezza.
Magari anche ibridata e resa un po’ sghemba, come la storiella che mi raccontano al bar della piazza principale sul conto di una facciata di casa che pende sul lastrico del belvedere, sorretta dietro da ponteggi rossi: fu commissionata a un artista internazionale dopo aver visto una sua opera in un’Expo, ma “finita” da un architetto locale, con orrore e disconoscimento dell’artista stesso. In luogo di una facciata candida e multimediale, l’opera appare oggi al visitatore ignaro una facciata di casa storica scampata a un terremoto, e a chi invece sa un memento del giusto prezzo da pagare per ogni hubris globalista.
Fuori dalla dimensione puramente localistica, la politica non esiste, o meglio ancora non rileva. Non pare attrezzata per rispondere alle domande, concrete, semplici e pesantissime di impresa da corsa (strade meno tortuose, rafforzare la ferrovia, investire sulla formazione del capitale umano e sulla sua permanenza, magari non fare morire l’ospedale locale). Ragiona sui grandi numeri, la massa critica, o sul particulare, si esprime in bandi, spesso mal disegnati e hanno ormai da tempo sacrificato gli aspetti qualitativi e l’imparzialità dell’allocazione delle risorse pubbliche al professionismo della burocrazia, non riesce a gestire chi guarda più lontano. E chi non può essere replicato.
Perché il modello di Soveria Mannelli è pressoché impossibile da clonare, come lo è il trapianto di alberi centenari per creare un nuovo bosco. Non ci sono ricette, incubatori, venture capitalist, che lo possano fare. Ci sono le persone, come i grandi imprenditori calabresi, ma anche come Francesco Fiamingo, che a Spilinga, in provincia di Vibo Valentia produce una ‘Nduja straordinaria (è anche presidente del Consorzio dei produttori locali) che arriva fino in Thailandia.
Allora, riflettevo pedalando, forse anche il mantra usurato del “fare sistema” va ripensato alla luce del fatto che praticamente tutta la nostra imprenditoria migliore è artigiana (indipendentemente dalle dimensioni), anche perché è legata indissolubilmente ai talenti e alla forza delle persone e delle famiglie. Prima di lagnarsi perché non è altro, bisognerebbe essere certi di aver consentito a questo sistema, pregi e difetti, di dare il massimo. Siamo bravi a produrre talenti, anche anarchici e sghembi come il monumento a Soveria, e dovremmo essere molto più attenti a selezionarli e consentigli di crescere, anche se non sono startupper.
Qual è la morale, le morali, di un’isola felice che non si riesce a clonare? Innanzitutto che non esistono, nemmeno tra le montagne della Calabria, luoghi persi, e che non sono mai persi i luoghi in cui esiste il lavoro, innanzitutto il lavoro manifatturiero, a patto di non fare le cose alla carlona, dando soldi senza costrutto. Ragionare di aree interne, borghi, paesi o come li si vogliano chiamare espungendo il lavoro è quello che Chico Mendes diceva dell’ambientalismo senza lotta di classe: giardinaggio (sociale). Se non si ha la fortuna di una classe imprenditoriale come quella di Soveria bisogna crearlo il lavoro, attraendo investimenti (è possibile nell’era del reshoring) e valorizzando le imprese locali. Il lavoro è la fondamenta di una comunità che funziona ed è felice. Se ne accorgono, sappiatelo, anche i turisti, che ormai sanno distinguere i luoghi veri, anche se sbeccati, dai fondali da film western.
Poi, non è una morale ma un sogno, bisognerebbe ricominciare a pensare in grande e a lunga gittata. Alcuni dei fenomeni che abbiamo visto in Calabria, depopolamento, aree naturali vuote e molto integre, identità locali molto dense, possono e devono uscire dalla dimensione localistica di problema che ogni comunità, anche nazionale, affronta da sola, per diventare un tema globale, frutto di riflessioni e politiche globali su tutto quello che si muove fra le metropoli.
È utopia, ovviamente, ma ha anche elementi di senso e cogenza.
Riparato da foreste lussureggianti dalla canicola peggiore di sempre, ho pensato che mai come oggi la sopravvivenza e l’estensione di questi boschi, il mantenimento dell’acqua, la ripresa e il rilancia di un’agricoltura più sostenibile anche perché più localistica e “identitaria” ci interessano e ci interesseranno anche quando torneremo a Roma, Milano, Parigi, New York. Ci interesseranno perché riguarderanno anche il nostro benessere di metropolitani del Nord, inermi verso questi cambiamenti. Ci interessano al punto che dovrebbero diventare oggetto di politiche pubbliche e private globali che sostengano non solo la tutela, ma anche l’innovazione di ambienti dove la natura governa le comunità umane, nelle quali sperimentare modelli e tecnologie di sostenibilità, produzione energetica, creazione di valore e anche turismo a forte componente innovativa, e non museificata o massificata, anche perché rilancia il passato per progettare il futuro. Vale per la Calabria, come per infinite regioni in Europa e in Occidente e sarebbe bello partisse proprio dal nostro Sud.
Recuperare una relazione simbiotica e non estrattiva con l’ambiente circostante serve anche per un’altra sfida globale, riprogettare comunità locali più funzionali e felici al di fuori dei grandi stomaci delle metropoli. Non ha senso piangere per lo spopolamento delle aree extraurbane, o per la vendetta dei luoghi che non contano, tutti soli in un angolo diverso della casa comune, è un problema almeno di tutto l’Occidente, e così va affrontato, ragionando, sperimentando e innovando.
La gelata della pandemia, e il lunghissimo post che stiamo vivendo, possono rendere queste riflessioni meno astruse. All’apparenza, hanno ridato uno strapuntino a una certa radicalità e utopia, al potere della visione, quantomeno per esorcizzare il presente che non funziona. Sarebbe bello che chi stava sempre dietro a un certo punto iniziasse a muoversi più velocemente, a rompere le gerarchie.
Difficile? Certo, quasi come mandare un banco dalla Sila in Polinesia.