I pessimi scenari per l’economia nella seconda metà del 2020 euro oltre stanno plasmando paradigmi economici largamente inediti, che prevedono un ruolo sempre più assertivo e diretto dello Stato nell’economia.
Per il peso che il tema ha avuto nella storia del ‘900, si può dire che questa rivoluzione è avvenuta pressoché in silenzio. Pochi l’hanno esplicitamente rivendicata, ancora più pochi anche fra i più inflessibili fustigatori dei lacciuoli al mercato l’hanno avversata. Troppa è la paura per quello che è successo e potrebbe ancora succedere per agitare vessilli ideologici (mai disturbare il libero mercato), che già prima del Covid-19 presentavano non pochi e non piccoli buchi.
Il mantenimento in piedi della nostra economia e la, ripresa economica sono affidati allo Stato e alle scelte della politica, a partire dalla capacità del Governo di portare a casa quante più risorse possibili, no strings attached, dall’Europa fino alla scelta dei sommersi e dei salvati fra le imprese e gli occupati.
Questo scenario non è più un’opzione possibile, è quello che sta accadendo e che accadrà con ancora maggiore velocità a partire dall’autunno. Alitalia, Autostrade, ILVA e probabilmente Telecom sono già, saranno, o torneranno a essere aziende a controllo di Stato. A queste si aggiungeranno un numero tendente a infinito di aziende para-pubbliche che dovranno essere salvate e di aziende private temporaneamente nazionalizzate se passerà la linea dell’ingresso dello Stato nel capitale delle aziende in crisi. Parliamo solo dello Stato senza menzionare gli enti locali, che certamente non si sottrarranno a contribuire al new normal.
Si tratta di una necessità temporanea, una sostituzione provvisoria peraltro in linea con gli altri paesi europei, la Germania in primis? È lecito dubitarne, non solo per aderenza all’aforismo di Giuseppe Prezzolini “In Italia non c’è nulla di più definitivo del provvisorio e nulla è più provvisorio del definitivo”. Già ben da prima della pandemia, ipotesi piuttosto radicali di un nuovo protagonismo dello Stato nell’economia si erano fatte largo in tutti i continenti, a sinistra come a destra dello schieramento politico. Per la prima volta, qui sta il dato strutturale e di lungo periodo, gli aedi del libero mercato quasi non hanno replicato, intontiti dalla crisi del 2008 come i comunisti nel 1989. Lo Stato è destinato a fare l’imprenditore e il dominus dell’economia per molto tempo anche dopo la scomparsa del Covid-19.
Se nuovo paradigma deve essere allora è opportuno, soprattutto per noi figli dello Stato arbitro degli anni ’90, prendere le misure a questo nuovo assetto, partendo da due domande fondamentali.
- La classe dirigente è adeguata?
Non si tratta di fare il gioco, non privo di ragioni ma poco utile, del “tu si, tu no”, ma di riflettere sull’adeguatezza di una classe dirigente (e quindi dei suoi meccanismi di selezione) vis à vis uno storico cambio di missione. Perché le leadership democratiche, ma anche quelle meno democratiche, solo il risultato di condizioni e processi storici, come tali soggetti a cambiamento. L’attuale classe dirigente politica mondiale non è frutto di un calo qualitativo degli spermatozoi per causa dell’inquinamento, quanto di profonde mutazioni nella distribuzione dei poteri che hanno marginalizzato il peso della politica a tutti i livelli. Sottoposta ai vincoli europei, alle pressioni internazionali, allo strapotere delle multinazionali liquide e da ultimo al bovarismo degli elettori mai contenti e mai pazienti, la classe politica si è con ovvie ma poche eccezioni selezionata all’inverso, forte della sicurezza che le sue mattane non potessero fare male. Da qui lo spazio inusitato attribuito agli imprenditori del caos, spiegabile solo con il fatto che anche in posizioni di comando avessero poche possibilità di fare troppi danni. Dall’altra parte i talenti, i best and brightest, e i gentiluomini non facevano politica, non andavano in parlamento. Facevano, nell’era del ritiro dello Stato dall’economia gli imprenditori e i manager, magari gli startupper, e al massimo i sindaci quando subentrava un po’ di narcisismo senile.
Oggi che la posta in gioco è molto alta non possiamo permetterci le intemperanze, le mancanze di visione e i giochi di ruolo della politica se questi non riguardano gli ascolti di un talk show ma miliardi di euro e milioni di posti di lavoro. Se lo Stato diventa il motore dell’economia, dovrà necessariamente riadattare alcuni meccanismi di funzionamento e di comunicazione esterna per avvicinarli un po’ di più a quelli del board di un fondo globale di investimento, magari “paziente” ma egualmente responsabile.
In questo nuovo paradigma, non sarà più possibile sottoporre una controversia legale e societaria alle medesime montagne russe comunicative che sono toccate a ILVA e ad Autostrade come ai nostri impegni europei, nei quali il diritto e l’opportunità hanno lasciato posto alla convenienza in termini di consenso, anche di brevissimo periodo. L’Italia ha l’incertezza del diritto e un’aurea di levantina inaffidabilità fra le principali cause di scarsa competitività internazionale, lo Stato imprenditore non può più rinfocolare questa incertezza.
Altrettanto e forse più incoerente con il nuovo paradigma è l’erratica divisione delle competenze, non solo fra poteri dello Stato, ma anche all’interno dello stesso esecutivo che, giova ripeterlo, sarà anche il massimo organismo di governance del fondo sovrano Italia. Il recentissimo spezzettamento di deleghe fra ministro, viceministro e sottosegretari allo Sviluppo economico, in cui si separano la RAI e la banda ultralarga dalle TLC, le PMI dagli artigiani, le crisi aziendali dalle crisi distrettuali, risponde a logiche che nulla hanno a che vedere con il governo dell’economia, in qualunque sistema economico.
Anche le scelte di tagli lineari e simbolici alla spesa pubblica, segnatamente il tetto di 240 mila euro ai compensi pubblici e il prossimo taglio dei parlamentari, avevano un senso nel paradigma precedente, dove chi rimaneva a presidiare lo Stato che si ritirava da tutto doveva costare poco per non incidere sulle tasche dei contribuenti, sottraendo risorse al mercato. Domani, quando CDP e il Parlamento avranno direttamente nelle loro mani e teste il benessere economico del Paese, a gestire la cosa pubblica dovranno essere i migliori talenti. Non per scelta etica da monaci guerrieri, ma perché nel nuovo paradigma lavorare nell’economia pubblica dovrà essere il nuovo lavorare in finanza a Londra o nel tech a San Francisco, ossia il sogno dei più lesti e ambiziosi della mia generazione.
La classe dirigente dello Stato fondo sovrano dovrà essere selezionata meglio secondo meccanismi più competitivi, come del resto lo era quella dello Stato imprenditore novecentesco, espressione di forze popolari che traevano la loro legittimazione da processi storici impetuosi. Perciò servono assolutamente elezioni più partecipate e meccanismi di selezione e formazione della classe dirigente pubblica (a partire da un Master in Public Business Administration) all’altezza del governo dei processi nel nuovo paradigma. Altrettanto necessaria sarebbe una riforma del funzionamento dello Stato, ma questo concetto è ormai usurato da decenni in cui ha significato buttare la palla in tribuna e forse deve riposare un po’.
- Che scelte farà lo Stato imprenditore?
Bene o male, i Mercati si autoregolano e quantomeno sui grandi numeri producono regolarità che premiano i comportamenti virtuosi e accorti penalizzano quelli che non lo sono. Nella loro intricata complessità, i Mercati producono interdipendenze ed equilibri, anche effimeri, che possono sciogliersi e riproporsi in altre forme sempre fondamentalmente autoregolate. È il caso della nostra impresa diffusa, del nostro (contraddittorio ma menomale che c’è) patrimonio di biodiversità imprenditoriale, complicato ma capace di straordinaria flessibilità. Il vecchio Stato imprenditore novecentesco, proprio in virtù della rispondenza a forze storiche di cui si è detto, aveva avuto il coraggio e la lungimiranza, oltre ovviamente alla possibilità, di proporre un patto fiscale implicito che consentisse la convivenza tra grandi aggregati e scelte conservative di spesa pubblica e un tessuto operoso di micro e piccola impresa libero di dare sfogo agli spiriti animali. Oggi che molte di queste interazioni e microprocessi sono da ricostruire e la palla è in mano allo Stato imprenditore e regolatore ci si chiede con impazienza che cosa farà. È appena evidente che le risorse pubbliche non basteranno per crioconservare l’economia in attesa del vaccino per il Covid-19 e dunque sarà necessario compiere delle scelte anche dolorose, nella speranza che i sacrifici di oggi portino a beni superiori domani. La leva fiscale e del debito pubblico del precedente Stato imprenditore oggi ha margini di manovra assai più limitati e servirebbe un nuovo patto sociale fatto di innovazione, infrastrutture e capitale umano in cambio dell’accettazione di interventi più mirati alla pace sociale che a logiche d’impresa o di fondo di investimenti.
Sarà in grado lo Stato imprenditore di agire anche come elemento abilitante delle forze sane del Mercato? Sarà in grado di comprendere e accompagnare le caratteristiche del Paese senza cedimenti né alla conservazione per il consenso, né al rullo compressore di ogni diversità come bug di sistema invocato ad esempio dal Piano Colao? Sarà in grado di guardare con empatia alla transizione digitale delle imprese, che deve seguire percorsi diversi e originali come diverso e originale è il sistema, senza tentazioni di fare all-in sull’ultima tecnologia venduta dall’ultimo venditore di tecnologie in grado di affascinare il Ministro di turno durante l’ennesimo Ted? Sarà da ultimo in grado lo Stato che si vuole imprenditore e fondo sovrano di dire dei no, di fare delle scelte anche dolorose sul momento in favore di scelte e visioni più grandi per il dopo?
Sic stantibus rebus credo che le risposte non possano essere altro che assai dubitative, ma il 2020 ci ha già abituato a incredibili sorprese, speriamo stavolta di segno diverso.
Ph: Bruno Panieri