Abbiamo superato Pasqua e la situazione non è buona. La combinazione tra pandemia e infodemia, tra il virus che avanza e le troppe incertezze sta producendo e produrrà effetti negativi molto seri. Ho appena finito di leggere un manuale sui big data, che magnificava la potenza della raccolta e della lettura dei dati, delle micro certezze dei numeri, per basare strategie e previsioni e mi sono trovato a riflettere su quanto ancora non sappiamo, in tutto il mondo o in Italia.
Non sappiamo, noi che leggiamo i quotidiani e seguiamo i notiziari, precisamente come il virus si diffonde; non sappiamo davvero quanto il virus si è diffuso; non sappiamo quanto reggerà l’equilibrio tra contenimento del rischio e insorgenza di altri rischi sociali, economici e psicologici; non sappiamo quando le risorse a favore di imprese e professionisti annunciate arriveranno e come; non sappiamo cosa troveremo fuori.
Per la prima volta io, inveterato ottimista, ho paura, individualmente e collettivamente, del futuro. Ho paura per la sensazione di essere saliti, io che non le amo, senza cinture sulle montagne russe: una discesa torcibudella (la pandemia, la quarantena) seguita da una vaga risalita (le possibilità di uscire), seguita da un altra caduta verticale (il disastro economico che ci aspetta). Ho paura per la sensazione straniante, io che sono figlio di artigiani e con gli artigiani sto a contatto continuamente, di attesa passiva degli eventi. Non ci sono abituato, non ci è abituata la mia gente, né i miei amici, né la mia bolla a far dipendere ogni decisione personale e lavorativa, nonché le proprie risorse economiche, dallo Stato. Oggi è certamente inevitabile, ma è lo stesso straniante e fa paura perché stravolge ogni ordine di vita, dalle questioni pratiche ai principii.
Non si può risolvere questo straniamento mettendosi a lavorare, aprendo botteghe che non possono essere aperte, bisogna aspettare. Aspettare di ricevere (informazioni, tamponi, permessi, soldi), che è la nostra condizione maggioritaria, è una combinazione di verbi assurdamente passiva, difficile da digerire. Personalmente, cerco di sopravvivere a questo doppio tuffo nella passività e nell’incertezza imponendomi di pensare al futuro, di leggere, studiare e fare pulizia nelle mie cose per la riapertura, e soprattutto imponendomi di desiderare forte, ossia di farmi un’idea forte e chiara di come vorrei il “dopo”. Serve per alzarsi dal divano, partecipare, dire con scienza e coscienza quello che ci piace e non ci piace di quello che verrà, magari dare una mano.
Ho già scritto su questo blog come la progettazione del “dopo” sia fondamentale, eticamente e praticamente. Chi non è nella prima linea del contenimento sanitario, dell’approvvigionamento di beni di prima necessità o della recovery economica deve pensare alla “fase 2”, non solo in termini di date, ma di organizzazione e riorganizzazione della vita.
I primi segnali in questo senso non sono incoraggianti. La scelta tutta burocratica e le conseguenti polemiche sui codici ATECO per le riaperture delle attività e l’assoluta incertezza su tempi e modi degli aiuti economici per le imprese sono solo due esempi di come NON si dovrà progettare il “dopo”: di fretta, burocraticamente, accentrando il potere nelle mani dell’amministrazione pubblica, deresponsabilizzando i cittadini e le imprese. I quali invece, cittadini e imprese, dovranno avere sistematicamente voce in capitolo, sollevare problemi, inventarsi soluzioni. Perché un Paese in cui cittadini e imprese si aspettano troppo dalla pubblica amministrazione è un Paese morto e noi stiamo in casa da oltre un mese proprio perché non vogliamo morire.
Come possiamo invertire il trend? Un suggerimento forte viene dall’intervista a un medico, Sergio Iavicoli, attualmente dirigente INAIL e componente del Comitato scientifico della Protezione civile. Esperto di medicina del lavoro, Iavicoli guarda da dentro, senza inutili polemiche di bandiera, al tema cruciale di come torneremo a vivere e lavorare nella “fase 2” e avanza i concetto tanto semplice quanto fondamentale di “reingegnerizzazione” ossia riprogettazione radicale del nostro modo di vivere e di lavorare, almeno fino a quando avremo il vaccino. Sembra scontato ma non lo è.
La logica della burocrazia e del lavoro per emergenze e pezze a colore, che è l’esatto opposto della reingegnerizzazione, procede per divieti e permessi che fanno da colli di bottiglia nel business as usual. Qualche esempio? La riapertura dei negozi con le limitazioni che sono filtrate (un cliente ogni 40 mq) significherà file sovietiche e alla lunga la vittoria delle grandi catene. Le nuove direttive sulla massima capienza dei mezzi pubblici significheranno (nel disastrato trasporto pubblico romano, ma anche nei carri bestiame per i pendolari di Trenord) un’amarissima alternativa tra viaggi della speranza e il ritorno all’utilizzo indiscriminato dell’auto personale, complice anche il calo del prezzo della benzina.
Senza reingegnerizzare, saremo almeno per un anno una società in fila per tutto, che oltre all’incubo del virus vivrà una costante condizione di scomodità, precarietà e rischio ben superiore a quella pre-virus, scivolando in una condizione di passività e dipendenza, peraltro da entità (le burocrazie pubbliche) che non sono in grado di gestire i rapporti sociali e economici al di là di porre veti e imporre regole. Serve altro.
Cosa? Uno sforzo di riprogettazione dei tempi di vita e di lavoro che si ponga seriamente, e non con la retorica vuota, consolatoria e gattopardesca del “niente sarà più come prima”, il tema di riprogettare i nostri tempi e le nostre modalità di vita e di lavoro. Uno sforzo su cui un Governo locale e centrale possa essere richiesto di mettere risorse con l’obiettivo di migliorare la vita dei propri cittadini.
L’obiettivo è di evitare quanto possibile di rendere la “fase 2” un’agonia che somma tutte le inerzie sbagliate e le disfunzioni del pre Covid 19 all’ansia e alle limitazioni del post. Come? Provo a contribuire su alcuni assi di ragionamento interconnessi: tempi, mobilità, tecnologie, lavoro, finanza, partecipazione.
TEMPI: l’organizzazione dei tempi di vita e di lavoro segue inerzialmente logiche fordiste tanto datate quanto inscalfibili. E’ lo stesso principio che resiste dietro alle raccomandate, che continuano ad essere recapitate in orario lavorativo durante la settimana, nonostante con tutta evidenza le casalinghe siano sempre meno e così i portinai, costringendo chi la riceve ad andare alla posta in orari di lavoro per ritirare una comunicazione il cui mittente, nel 2020, è misterioso. Nessun senso, a parte l’inerzia. Nella fase 2, lo spiega molto bene Iavicoli, dovremo evitare gli assembramenti e dunque il concetto stesso di ora di punta. Gestito burocraticamente, questo diktat può diventare un inferno di attese dei mezzi pubblici o in coda in auto. Gestito cogliendo l’occasione dell’interruzione dell’inerzia per riprogettare le cose vuol dire che non tutto il mondo deve andare a lavorare o a scuola nello spazio di due ore, o affannarsi a fare la spesa nel fine settimana. Oltre a opporre divieti, si possono e si devono riprogettare i tempi di vita e di lavoro, scaglionare l’inizio delle scuole, differire l’ingresso negli uffici. Ovviamente è più difficile per chi lavora nella manifattura (o meglio richiede molta tecnologia, vedi sotto), ma chi lavora nei servizi ha già sperimentato come il lavoro da casa possa non sostituire, ma certamente affiancarsi al lavoro fordista in presenza, eredità di quando tutti, colletti blu e colletti bianchi, andavano insieme verso la stessa fabbrica. Un’era passata.
MOBILITÀ: fossi un pendolare che da Saronno raggiunge Milano con Trenord inizierei seriamente a preoccuparmi dell’ulteriore pena che la “fase 2” mi imporrà, al punto di riconsiderare l’opportunità di spostarmi in auto. Sarebbe un epocale disastro, anche alla luce del forte sospetto di correlazione tra inquinamento e diffusione del Covid. Anche la mobilità andrà radicalmente ripensata, magari approfittando dell’opportunità offerta dall’avere, purtroppo, meno persone in giro. Prima che a incentivi per comprare nuove auto, penso al programma elettorale della Sindaca di Parigi Anne Hidalgo della “città in 15 minuti”, ossia la possibilità di riprogettare l’area metropolitana perché le persone trovino entro 15 minuti, anche di bicicletta, la maggioranza dei servizi necessari, compreso il lavoro, le scuole dei figli, le botteghe per la spesa. Come per i tempi, è possibile una rivoluzione dettata dal Covid ma che produca effetti positivi che vanno ben oltre il tempo della paura.
TECNOLOGIE: la pandemia, si è detto in tutti i modi, è stato il momento in cui moltissimi italiani hanno fatto pace con le tecnologie. Si è finalmente capito che la tecnologia può avere un aspetto di semplicità d’uso e diventare familiare anche al di là delle competenze di ognuno. Capendo questo, si sono in parte superati i timori che la tecnologia avrebbe tolto lavoro e libertà o l’indifferenza di chi diceva “non è per me”. Alcune cose rientreranno, perché ad esempio andare a scuola o andare almeno una parte del tempo in ufficio ha un valore in sé, che non è completamente virtualizzabile. D’altra parte alcune tecnologie, penso all’e-commerce anche di prossimità, ci accompagneranno a lungo e diventeranno quotidiane, come lo è diventato il telefono cellulare. Bisognerebbe partire da questo passo avanti per lavorare agli step successivi, maggiore familiarità diffusa con la tecnologia, più competenze, maggiore adozione di soluzioni anche più raffinate. Le tecnologie consentiranno, lo si sta già sperimentando, di gestire la produzione eliminando i rischi di assembramento fra lavoratori. Se l’economia dipenderà, purtroppo a lungo, dalle scelte di allocazione di risorse da parte del pubblico, è fondamentale che l’investimento in tecnologia e innovazione, TUTTE le tecnologie utili a creare valore e lavoro, e in competenze per capire e utilizzare le tecnologie (in proprio o attraverso i propri collaboratori) siano prioritarie rispetto agli investimenti tappabuchi della pace sociale.
LAVORO: chi ha perso il lavoro deve essere messo nelle condizioni di occupabilità migliori possibili, o sostenuto nella creazione di lavoro autonomo e di impresa. La gelata occupazionale non può risolversi in un allargamento della platea, psicologica prima che economica, dei percettori di reddito di cittadinanza. Un Paese che, anche nelle sue aree più dinamiche, non spera nel riscatto economico attraverso il lavoro è, di nuovo, un Paese morto. Ogni vagito di imprenditorialità “sana”, fossero anche due ragazzi che rilevano una bottega artigiana da qualcuno che è stanco e approfitta della serrata per non riaprire più la clér, deve essere sostenuto con lo stesso entusiasmo con cui si accolgono i nuovi nati nelle comunità che si spopolano. Ugualmente, l’allocazione delle risorse pubbliche per la ripartenza deve premiare chiaramente le iniziative che creano lavoro “buono”, a partire da una scommessa radicale, negli incentivi, nell’annullamento della burocrazia, ma anche nelle sanzioni sul ritorno in Italia della nostra manifattura.
FINANZA: ad oggi lo si dice solo a mezza bocca, ma molto del futuro delle famiglie e delle imprese, soprattutto quelle del turismo e del retail, passa per il buon cuore, l’intelligenza e l’avvedutezza dei migliaia di proprietari di immobili. Se qualcosa si è fatto per gli affitti commerciali, ancorché a breve termine, nulla si è fatto per il mercato immobiliare privato. Per tare personali amo e stimo poco la rendita e i redditieri, anche piccoli, ne diffido, ma so che dalle loro scelte individuali dipenderà moltissimo del destino di quel ristorante, di quella bottega, di quella famiglia. Se dalla micro rendita passiamo alla macro rendita, è evidente che vi sono Paesi che usciranno prima e meglio di noi dalla crisi, offrendo ai capitali rendite che da noi saranno problematiche per molto tempo. Se ne vogliamo uscire interi, il capitale deve partecipare alla ricostruzione divenendo più paziente in cambio di orizzonti chiari e della certezza del diritto, che in passato sono mancati.
PARTECIPAZIONE: queste proposte sono fatte pensando innanzitutto ad orientare le scelte del pubblico in merito all’allocazione di risorse e alle decisioni di policy, perché possano contribuire a una reale fresh start. Poiché non credo nel legislatore onnisciente, ritengo che la cosa migliore che può fare la politica, che deve guidare (lei e non la burocrazia) le scelte dello Stato sia quella di disporsi in ascolto attivo di chi ha cose da dire, proposte da fare, energie da offrire. Va bene la Commissione Colao, ma assolutamente non basta. Come la Commissione europea ha meritoriamente fatto a marzo, assicurando un canale preferenziale di ascolto, implementazione e finanziamento a soluzioni tecnologiche per contrastare l’emergenza, così a tutti i livelli bisogna incoraggiare e premiare le proposte di cittadini, imprese, scuole, associazioni e altre amministrazioni pubbliche per gestire meglio la “fase 2” e la ricostruzione. Questo non solo per l’obiettiva supremazia dell’intelligenza collettiva nel trovare soluzioni a problemi complessi, ma anche perché è necessario fare uscire rapidamente le energie della società dall’anchilosi a cui le hanno condannate mesi di chiusure, controlli, decreti. Dobbiamo tornare rapidamente ad avere la sensazione di poter disporre della nostra vita, anche per poter seguire i precetti della “fase 2”, ma riuscendo a vedere oltre, il futuro. Perché, come diceva Eduard Bernstein “il movimento è tutto, il fine è nulla”.
Ph: Bruno Panieri