Il Ministero dello Sviluppo Economico ha di recente diffuso i dati sugli investimenti delle imprese in tecnologie 4.0 grazie agli incentivi previsti dal Piano Impresa 4.0, oggi Transizione 4.0. Si tratta di dati in parte già noti, che consentono una riflessione sostanziata storicamente e statisticamente sul più rilevante e innovativo programma di politica industriale per l’Italia negli ultimi lustri. Un programma, giova ribadirlo, che brillava nell’asfittico e unidirezionale panorama delle politiche industriali e dell’innovazione italiane per semplicità e apertura all’inclusione anche delle micro e piccole imprese, che rappresentano la decisa maggioranza del nostro sistema imprenditoriale.
Nonostante queste indubbie potenziali positività, il bilancio a tre anni del programma si sofferma innanzitutto sui limiti che anche l’approccio a banda larga della misura non è riuscito a superare.
Spiega il MISE che “la misura ha agevolato in prevalenza gli investimenti delle imprese di medio-grande dimensione (64%)” e parimenti “la misura ha agevolato in prevalenza le spese in R&S delle imprese di medio-grande dimensione (63%)”. Pochi investimenti di grandi dimensioni hanno, sia chiaro con piena legittimità, drenato il grosso delle risorse, sia negli investimenti in ricerca e sviluppo che negli investimenti in macchinari 4.0.
Si tratterebbe di naturali processi di diffusione dell’innovazione se ai grandi investimenti delle imprese più strutturate e dinamiche fossero seguiti investimenti diffusi da parte del sistema delle imprese, in risposta alla ristrutturazione verticale delle filiere o per semplice imitazione. Così purtroppo non sembra essere accaduto, e il MISE denuncia negli ultimi due anni un crollo degli ordinativi interni di macchine utensili, arrivato al meno 25,7% dei primi 3 trimestri del 2019.
In assenza di un riverbero sistemico delle scelte di innovazione delle imprese più grandi e strutturate (e di quelle più piccole e dinamiche), Impresa 4.0 come grande progetto di palingenesi della nostra manifattura si è in buona sostanza fermato. L’opera di ristrutturazione del programma da parte del MISE, che nel nuovo programma “Transizione 4.0” prevede l’allargamento della platea di soggetti incentivabili di più del 40%, anche grazie al passaggio al credito di imposta. È certamente un segnale di attenzione importante verso l’inclusività nei processi di innovazione di chi oggi è rimasto alla finestra, ma è possibile e necessario fare ben di più, non tanto e non solo da parte del Governo ma del complesso del sistema nazionale dell’innovazione.
La via italiana al 4.0 si è fermata nel momento in cui chi sapeva cosa fare e dove andare, con equa e proporzionale distribuzione tra grandi, medi, piccoli e micro, ha giustamente utilizzato le opportunità proposte e oggi sta mettendo a punto nuove strategie conseguenti. Sono quelli che, con particolare riferimento alle micro e piccole imprese, chiamo le “lepri”. Imprenditori curiosi, capaci, “svegli”, che hanno capito cosa la trasformazione digitale poteva fare per loro e semplicemente lo stanno facendo. Non è ovviamente una strada in discesa, e uno di questi imprenditori-lepre mi ha raccontato che la sua azienda ha dovuto ritararsi profondamente dopo che l’eccesso di entusiasmo per il 4.0 l’aveva resa irriconoscibile ai suoi collaboratori, che non sapevano più dove mettere le mani, ma ci sta. Agli imprenditori-lepre dobbiamo innanzitutto gratitudine, per aver tenuto a galla la nostra economia in mari procellosi, e attenzione, perché alcuni filamenti del loro DNA possono essere reimpiantati nel resto del sistema, che deve capire che “si può fare” e soprattutto “come si fa”.
Ma né l’esempio edificante, né tantomeno lo storytelling, bastano a risolvere il problema di rendere la propensione alla trasformazione digitale sistemica e non legata alla genialità personale. Ad oggi non abbiamo soluzioni organiche, forse non esistono soluzioni organiche e definitive a questa sfida. Sappiamo però, come Montale e i Sex Pistols, quello che non vogliamo, perché non funziona.
Certamente non funziona la semplice ostensione dell’innovazione e delle tecnologie, la loro evocazione come qualcosa di così palesemente straordinario e salvifico da non poter essere che acriticamente adottato dal sistema delle imprese, a sua volta una massa indistinta che si muove più secondo i principi della fisica che della psicologia, della sociologia e della storia. Più per osmosi che per attitudine personale, esperienze, luogo di origine.
Purtroppo, non è così, non lo è mai stato e a maggior ragione non lo è in periodi di profondo, traumatico sommovimento che investe non solo la dimensione fondamentale del lavoro, ma anche lo status e le prospettive delle persone, che reagiscono comprensibilmente in modi diversi.
Accanto alle lepri, vi sono infatti almeno altre due macro-categorie di imprenditori, ognuna delle quali più consistente numericamente dei best performer, che chiamerò “fossili” e “cavalli”.
I fossili sono splendidamente rappresentati da Brunilde Cocchi, l’amabile merciaia novantanovenne di Prato che a fine dicembre ha annunciato che quando il Governo renderà obbligatorio per gli esercizi commerciali il POS (che lei chiama “il coso”), cesserà l’attività nella bottega del centro storico della città toscana, attiva dal 1927. Brunilde Cocchi è l’esempio più letterario di una categoria di imprese, certamente assai più numerosa delle lepri, che non ha alcuna intenzione di adattarsi al cambiamento, in primis al cambiamento portato dalla trasformazione digitale. Sono realtà alle quali si deve il massimo rispetto, e che con questo rispetto e attenzione devono essere accompagnate a una dignitosa uscita di scena, oppure devono se possibile trovare le condizioni per rimanere attive in virtù del loro valore storico e sociale, come nel caso delle attività commerciali delle aree interne che garantiscono un presidio ai territori il cui valore va ben oltre il loro magerrimo conto economico.
L’errore che non si deve compiere, nel caso dei fossili ancora di più che nel caso delle lepri, è di settare su di loro priorità e scelte di policy, il ritmo della corsa. Può sembrare un’affermazione scontata ma se guardiamo la pratica ci accorgiamo che è tutt’altro che così. Il discorso sull’innovazione e la trasformazione digitale, appannaggio della bolla degli innovatori, guarda quasi esclusivamente ai best performer, senza curarsi di chi è più lento o semplicemente ha esigenze differenti. Troppi innovatori pensano semplicemente di essere dalla parte giusta della storia e si siedono sulla riva del fiume ad attendere i ritardatari. Dall’altro lato, in un Paese gerontocratico come il nostro e che richiede protezione da un cambiamento violento per il quale gli strumenti scarseggiano, il peso dei fossili nella definizione delle priorità di policy (i pensionati sui giovani, la redistribuzione sulla creazione di ricchezza) e assolutamente smodato.
Come nel caso dei buoni distillati, è sempre consigliato il taglio delle teste e delle code: non fermiamo le lepri, non rottamiamo i fossili, ma dedichiamo le maggiori energie a chi sta nel mezzo.
Io li chiamo “cavalli”, perché possono essere velocissimi destrieri o lenti animali da soma. Sono la grande maggioranza delle imprese, hanno voglia di crescere e di creare valore, ma spesso semplicemente mancano degli strumenti adatti. Un tempo, questi mediani trovavano in mercati di prossimità più vivaci e nella divisione più democratica del lavoro garantita dai distretti le condizioni ecosistemiche per prosperare anche in assenza di spunti di eccezionalità. Facevano bene, a volte benissimo, il loro e il sistema glielo riconosceva. Oggi però, per citare il saggio dell’economista Tyler Cowe, “Average is Over”. Il darwinismo digitale mette crescente pressione, polverizza le rendite di posizione, costringe a compiere delle scelte.
Se non si hanno in proprio le risorse delle lepri (o niente da perdere come i fossili), questo adattamento obbliga le imprese ad attingere a risorse, in termini di competenze, visione strategica, tecnologie, capitali che necessariamente stanno all’esterno di esse, nel sistema economico. Compito degli integratori del sistema (Governo, istituzioni intermedie, sistema della formazione e della ricerca, sistema della finanza, imprese) è garantire con politiche e altri strumenti che i cavalli possano accedere a queste risorse esterne in modalità sostenibili per somigliare sempre più a lepri e non scivolare tra i fossili, condizione che è garanzia di salute per l’intero sistema.
I dati del MISE con i quali ho iniziato ci dicono che un programma di politica industriale nato con le migliori intenzioni ha ancora una volta accompagnato le lepri (che è un bene, intendiamoci) ma non ha scalfito i cavalli, non ha colpito il bersaglio vero, che è mobile e rognoso. Per colpire il bersaglio vero non bastano incentivi generosi (e non basterebbero nemmeno se lo fossero di più), ma è necessario mettere mano artigianalmente al processo di socializzazione dell’innovazione presso i secondi della classe, smontandolo e rimontandolo perché raggiunga lo scopo di includere sempre più persone e imprese tra chi accoglie e utilizza le tecnologie per fare meglio quello che già fa, garantendosi di rimanere competitivo più a lungo.
Poiché al fondo delle scelte delle imprese vi sono sempre delle persone, e in un sistema economico dove il 99,4% delle imprese ha meno di 50 dipendenti questa riduzione all’individuo e pressoché letterale, per cambiare i comportamenti bisogna entrare nella testa delle persone i cui comportamenti determinano scelte rilevanti per le imprese, riorientandoli in senso più favorevole all’innovazione. Questo significa certamente competenze, insegnare e far capire cose nuove non solo ai dipendenti, ma a monte a chi quei dipendenti li deve assumere e pagare. Significa però anche empatia, ossia la capacità di costruire percorsi di cambiamento tanto più efficaci quanto più in grado di prendere le mosse dall’ascolto dell’esperienza, dei problemi e dei desideri dei destinatari dell’intervento, senza scivolare nell’atteggiamento da inglesi in colonia tipico di molti innovatori alle prese con chi innovatore non lo è.
Il mantra dell’inclusività deve permeare anche l’organizzazione dei network territoriali dell’innovazione. A distanza di tre anni dal lancio di Impresa 4.0 credo si possa serenamente ammettere che il Network 4.0 che era stato immaginato come sistema di soggetti a sostegno della trasformazione digitale delle imprese non ha raggiunto il suo scopo e necessita di una corposa ristrutturazione. Di più, la confusione di ruoli e la mancanza di empatia nel sistema ha una forte responsabilità sul bilancio di Impresa 4.0 stilato dal MISE.
Il Network 4.0 era composto di 3 soggetti (i PID delle Camere di Commercio, i Digital Innovation Hub dei corpi intermedi, i competence center delle università e delle grandi imprese), i quali avrebbero dovuto corrispondere alle tre stazioni di un percorso sapienziale nell’innovazione, un passaggio da allievo a Maestro. Così non è stato e probabilmente non sarebbe mai potuto essere.
Le camere di commercio non posseggono né le competenze né il ruolo per accompagnare le imprese al di là di redistribuire risorse economiche (che sia chiaro sono benvenute, ma da sole poco utili), i competence center sono arrivati troppo tardi e guardano ostentatamente alle lepri. I Digital Innovation Hub sono un elemento fondamentale per qualsiasi progetto di innovazione inclusiva, non foss’altro che per genesi nascono da soggetti che si confrontano quotidianamente con le imprese di ogni tipo e dimensione su temi reali. Due sono oggi i principali ostacoli, uno interno e uno sistemico, al lavoro dei DIH. Quello interno riguarda la complessità di organizzare un soggetto di organizzazione e rappresentanza della domanda di innovazione, che è cosa ben diversa dall’offerta di servizi innovativi, per i quali ritengo si debba dare spazio a un mercato che è sovrabbondante di offerta. Quello esterno riguarda proprio il carattere disordinato di quest’offerta sovrabbondante, che è malissimo distribuita sul territorio (troppo nelle città, niente nella provincia), e non attrezzata a quell’approccio empatico di cui parlavo in precedenza.
Qui sta il vero bug nel sistema, nella quasi totale mancanza di soggetti che integrino le risorse a disposizione grazie alla politiche pubbliche con il lavoro di aggregazione ed educazione della domanda fatto dai corpi intermedi e lavorino a sviluppare soluzioni per la trasformazione digitale che siano disegnate con empatia sui bisogni e le possibilità delle imprese cavallo. La complessa architettura del Network 4.0 manca di un motore che garantisca dinamica al percorso e passaggio dei soggetti dalla fase di prima informazione a bisogni complessi, uscendo dall’attuale sistema di silos.
Ho detto “quasi” perché la settimana scorsa al MIUR ho avuto il piacere di partecipare al lancio della quarta edizione del progetto “ITS 4.0”. Si tratta di un progetto nazionale che mette insieme Istituti Tecnici Superiori e imprese nello sviluppo di soluzioni 4.0 attraverso la metodologia del design thinking. Nati nel 2010, gli ITS sono scuole di alta specializzazione tecnologica di livello post-secondario non universitario, a cui possono accedere coloro i quali sono in possesso di un diploma di scuola superiore di II grado. Formano quelle figure di tecnici dei quali le imprese hanno dannatamente bisogno per la transizione al 4.0, come dimostrano i tassi di occupazione a un anno degli studenti, che raggiungono un sensazionale 80%. il progetto ITS 4.0 fa compiere a questo capitale un ulteriore, fondamentale salto in avanti: da fucina di tecnici gli ITS passano ad essere anche uno dei motori della trasformazione digitale delle imprese la cui mancanza non è stata adeguatamente avvertita. Fondamentale per assumere questa nuova funzione è il ricorso a un metodo di maieutica dell’innovazione, il design thinking, che comprende 5 step, il primo dei quali si chiama molto eloquentemente e non a caso “empatia”.
Giovani entusiasti e orientati all’innovazione, guidati da un metodo consolidato che nasce dalla consulenza strategica più innovativa, diffusi sul territorio con più attenzione alla presenza di sistemi diffusi di imprese e di distretti che alle regole urbanocentriche dell’economia di agglomerazione, attivi in istituti scolastici che annullano la distanza con il mondo del lavoro grazie a una governance che comprende le imprese e i corpi intermedi. Questo mix funziona? I risultati delle sperimentazioni degli anni precedenti, con ben l’85% (!) dei progetti sperimentali che sono diventati prodotti e servizi reali, dicono assolutamente che nell’incontro tra imprese cavallo e portatori non aggressivi ma accoglienti di competenze c’è uno straordinario potenziale ancora largamente inespresso.
Si tratta di elementi di straordinaria importanza, che giustificherebbero un’attenzione maggiore agli ITS da parte dei policymaker, innanzitutto come parte attiva di nuove e più efficaci politiche di sviluppo. La necessaria manutenzione non solo degli incentivi al 4.0, ma anche del sistema di supporto alla transizione, non potrà assolutamente fare a meno di questa straordinaria riserva di energie, creatività, diversità e voglia di fare.
Perché ci salveranno i ragazzi, se gliene daremo il modo.