Il primo a far notare la presenza di un enorme e torvo elefante nella stanza è stato il 10 novembre il quotidiano britannico Guardian. Scrivendo a proposito della cannibalizzazione delle risorse operata dalle grandi città a danno del resto dei territori degli Stati nazionali, il Guardian si soffermava a lungo sul ruolo di Milano e la sua vertiginosa crescita.
Un’ascesa quella di Milano resa ancora più impressionante dall’appalesarsi di una crisi di crescita, idee e prospettive da parte del resto del Paese, ossia dalla crisi della provincia diffusa e delle altre città. Un dato solo, che il Guardian riprendeva dal grande economista territoriale Roberto Camagni: tra il 2000 e il 2016 (complice anche Expo); Milano ha accresciuto la sua già rilevante quota del PIL nazionale di ben il 17,7%. Solo altre quattro città avevano registrato una crescita nel periodo e la seconda per performance era Roma, con appena il 4,4%.
Milano, ormai è noto, attrae tutte le determinanti del valore territoriale: capitale umano e talenti (lavoratori e studenti), competenze ad alto valore aggiunto, headquarter di aziende multinazionali (alcune sottraendole a Roma), investimenti immobiliari, grandi eventi, turisti. Non solo, nell’economia dell’immaginario Milano è sempre più the place to be, lo pensa ben l’85% dei suoi abitanti e lo pensano sempre più persona che da fuori vorrebbero venirci a vivere e lavorare.
Sono dati crudi ma la competizione globale fra territori, come tutte le forme di competizione capitalistica, ”it’s not cricket”. È una guerra per molti versi spietata per risorse scarse, le quali a loro volta scommettono dove vivere, lavorare, studiare, comprare casa, sponsorizzare sulla base delle opportunità di massimizzare il ritorno dell’investimento. Opportunità che oggi nessun territorio in Italia può dare più di Milano. A eccezione dei momenti, non certo questo, di straordinaria crescita, la competizione territoriale è anche un gioco a somma zero: se io vinco è perché qualcuno perde.
Studenti nati altrove arrivano a Milano e vi si fermeranno per vivere e lavorare tornando nei luoghi di provenienza solo in vacanza, famiglie utilizzano il risparmio per comprare loro casa invece che investire sul territorio dove gli immobili valgono sempre meno, multinazionali (come SKY) vi concentrano i dipendenti e le risorse chiudendo le attività a Roma. Gli esempi potrebbero continuare, tutti a ribadire che si, effettivamente Milano drena risorse che reimpiega nella competizione globale fra città.
All’articolo del Guardian è seguito un dibattito un po’ surreale sull’attrattività di Milano come problema nazionale e sulle riparazioni possibili a questo eccesso di coolness. Ad accrescere l’improbabilità del dibattito, a parte i toni calcistici assunti da alcuni partecipanti come il principale quotidiano di Roma, era soprattutto la sensazione di quanto fosse ancora completamente radicato nel ‘900.
Le risorse del ‘900 erano soldi e mattoni, gestiti innanzitutto dallo Stato nazione, il quale poteva decidere di realizzare investimenti produttivi come ILVA, in grado di occupare con l’indotto oltre 35.000 persone e dunque di determinare l’economia di intere regioni. Concordemente, se una città cresceva troppo a danno degli altri territori, lo Stato nazione avrebbe dovuto e potuto intervenire, direttamente o per suasione morale, riallocando risorse senza fare figli e figliastri. È questo in soldoni il senso della restituzione al Paese da parte di Milano, invocata e poi semi-smentita dalla politica nei giorni successivi all’articolo del Guardian.
È una ben tragica ironia come, in quegli stessi giorni di indignazione per la bulimia milanese, scoppiasse tragicamente il bubbone ILVA che, al netto delle bassezze e mediocrità di molti degli attori in campo rappresenta anche simbolicamente il tramonto dell’economia dei mattoncini spostati sulla mappa da un demiurgo onnipotente.
Tralascio i dettagli della vicenda ILVA, sulla quale hanno abbondantemente scritto persone assai più competenti, a partire da Marco Bentivogli. Mi limito a osservare che oggi, senza le condizioni di agibilità per investimenti pubblici da economia pianificata o per incentivi straordinari, non sussistono in ben oltre metà del Paese le risorse competitive né per sostituire ILVA, né per intercettare qualsivoglia gocciolamento del valore prodotto da Milano, tantomeno per contendere ad essa alcunché.
Se, ovviamente per assurdo, Milano decidesse di rifiutare per fair play nuovi investimenti internazionali o nuovi studenti di ingegneria, i migliori di questi non andrebbero certamente né a Roma, né a Torino (che ha ormai 2000 pendolari quotidiani del Frecciarossa che lavorano a Milano e dormono in Piemonte ), men che meno tornerebbero a Campobasso o a Ragusa, ma si rivolgerebbero ad altre aree dense e competitive, a questo punto fuori dai confini nazionali. Ugualmente pessima sarebbe l’idea di qualunque fiscalizzazione del gap competitivo, ché gli investimenti pubblici (per i quali comunque le risorse non paiono esserci) funzionano davvero solo laddove sospingano condizioni di competitività pre-esistenti.
È dunque tutto finito? Anche la Speme, Ultima Dea, fugge i sepolcri? Probabilmente si, se continuiamo a leggere i fenomeni con le lenti del ‘900 senza però possederne più gli strumenti di governo. Il gap competitivo di Milano nel campionato italiano non è in alcun modo colmabile dagli altri territori se non attraversi un, assai sconsigliabile, declino della stessa Milano.
Probabilmente però è la stessa idea di competizione intra-nazionale fra territori di provincia e metropoli globali a essere datata e a produrre effetti perversi e lose-lose per tutti i soggetti in campo. A perderci è ancora una volta soprattutto la provincia, che nella vana prospettiva di competere contro i grandi aggregati è andata perdendo la propria identità (e dunque il proprio vantaggio competitivo) in favore dell’”essere come tutti”, ossia di una standardizzazione identitaria che può funzionare per Milano in competizione con Londra, non certo per Pescara o Matera.
Bisogna uscire dal ‘900 e dalla scatola del politicamente comodo e ricorrente e immaginare paradigmi e divisioni del lavoro nuovi, nuove cornici di senso all’interno delle quali anche l’idea che Milano restituisca un po’ delle risorse di valore accumulate anche grazie al Paese può acquisire una verosimiglianza.
Provo a indicare alcuni punti di un nuovo patto di collaborazione tra metropoli e provincia, tra Milano e il resto del Paese.
Il vantaggio competitivo delle metropoli è oggi in larghissima misura fondato sull’agglomerazione di persone e competenze ad alto valore aggiunto. Quanto più queste sono dense, tanto più la città è competitiva e attrattiva. Oggi queste competenze riguardano le tecnologie e l’innovazione, il marketing e la comunicazione, la finanza, la salute, la cultura, il sociale, il governo della cosa pubblica. Se è pressoché impossibile che queste competenze dense si spostino se non tra metropoli, è invece necessario pensare di metterle al servizio della modernizzazione della provincia.
Come? Ragionando in un’ottica di accelerazione di tutti quei fermenti, imprenditoriali, culturali, sociali che hanno luogo nei territori della provincia e che oggi faticano a emergere e assurgere a livelli di competitività e significanza adeguati. Questo il più delle volte proprio per assenza di competenze di qualità ad alto valore aggiunto, quelle cioè che rendono ancora le città contemporanee “i luoghi dove succedono le cose”. Esistono già acceleratori di impresa, che si rivolgono essenzialmente alle start up o alle imprese più dinamiche, le quali hanno colto l’importanza della connessione con i luoghi dove trovano le competenze più preziose. Oggi bisogna immaginare di scalare questi processi a interi territori, utilizzando le riserve di competenze presenti nell’area metropolitana (università, ITS e scuole, professionisti, amministratori locali) e un sistema di distribuzione diffuso, che poggi sui pochi presidi territoriali ancor in qualche modo in piedi, come le camere di commercio e i corpi intermedi. Accelerando soggetti che si impegnano a tornare a produrre valore sul territorio, e favorendo la messa a disposizione della provincia delle competenze metropolitane ad alto valore aggiunto, si potrebbe rispondere alla cronica scarsità di risorse per l’innovazione che rappresenta uno dei limiti più forti per la sua competitività. Competitività che, giova purtroppo ripeterlo, nell’epoca del 4.0 non passerà più da poche soluzioni a grande impatto, ma da tante soluzioni interconesse e dalla capacità di offrire a chi investe energie e competenze, che oggi scarseggiano.
Accelerare i processi di sviluppo e innovazione della provincia non è solo un’opera caritatevole da parte di Milano, ma ha anche una precisa utilità. Milano nel suo campionato è, benché assai dinamica, troppo piccola. Lo è ridicolmente nella sua forma di comune (1,5 milioni di abitanti) e lo rimane nella sua accezione di città metropolitana (3 milioni di abitanti). Un’isola troppo piccola e costosa, che drena risorse pregiate a un Paese sfiatato, non è qualcosa che alla lunga può rimanere competitivo. Una meta-città iper connessa fisicamente, tecnologicamente e amministrativamente, centrata su Milano e in grado di integrare i centri urbani a due ore di alta velocità (da Torino e Genova a Venezia e Bologna), potrebbe essere qualcosa di assai più rilevante. Se poi la governance di questa metropoli diffusa, dove si raccoglierebbe un concentrazione straordinaria di competenze, capacità produttiva e capitali, fosse in grado di darsi l’obiettivo e la value proposition della modernizzazione e della trasformazione della nostra base produttiva manifatturiera, dando nuova vita ai distretti industriali in crisi da disconnessione con la contemporaneità, avremmo dato vita a qualcosa di estremamente competitivo a livello globale.
Una simile razionalizzazione non rischierebbe di comportare una perdita di identità e un’ulteriore impoverimento della biodiversità culturale e produttiva del nostro Paese? Ritengo di no. La trasformazione digitale e in generale la modernizzazione della provincia, che passa anche e sopratutto per la riorganizzazione e la messa a disposizione delle competenze chiave, oggi mal allocate, rappresentano l’unica opportunità per arrestare il declino, che dalla provincia porta alla periferia, e per riaffermare il valore positivo e la competitività delle nostre diversità e delle nostre nicchie.
Milano e il resto del Paese devono tornare a guardarsi e a parlarsi, senza spocchia né tribalismi, nella consapevolezza che sono molto più legati e interdipendenti di quanto l’euforia dell’una e la depressione dell’altro facciano immaginare. Se faranno la pace potranno fare grandi cose insieme.
Photo: Bruno Panieri