Buoni propositi e consigli non richiesti (e non dati)

Con questo pezzo comincio l’avventura di questo blog, che ho chiamato “Grimpeur” come quei ciclisti un po’ folli e ottimisti che amano affrontare le salite, esaltandosi per la difficoltà e la fatica. La mia personale salita è pensare, anche io con follia e ottimismo, a come l’innovazione a misura d’uomo può migliorare la vita dei cittadini, delle imprese e delle comunità. Buona lettura.

 

Siamo agli inizi di settembre e si è appena insediato un nuovo Governo, ci sono dunque tutte le condizioni per esagerare con i buoni propositi, gli entusiasmi per il nuovo inizio e i sogni di palingenesi. Anche nella bolla dell’innovazione digitale la ripresa è carica di aspettative, a partire dall’insediamento di un ministro dell’Innovazione Tecnologica e Digitalizzazione, nella persona di Paola Pisano, già assessore all’Innovazione del Comune di Torino, la quale troverà la scrivania ingombra di consigli, suggerimenti, richieste, priorità irrinunciabili.

Troppa carne al fuoco (a mio avviso e sarò felicissimo di essermi sbagliato) è stata messa da troppe bolle perché un Governo già in partenza claudicante possa contentare se non pochissimi postulanti e soprattutto perché possa mettere in campo interventi che vadano oltre la semplice ragionevolezza e necessità e volino alto nei cieli della visione.

Indipendentemente dalla fiducia nelle possibilità del nuovo Governo di imprimere un sostanziale cambio di marcia al Paese, la ripartenza invita come dicevo ad aprire il libro dei sogni e ad immaginare modi nuovi di vedere ancora prima di fare le cose, ad esempio nel gestire la relazione tra innovazione e crescita dell’economia.

Il Governo Conte I incarnava un’idea organica di governo dell’economia nella quale la componente dell’innovazione (e forse più in generale dell’impresa) era secondaria rispetto all’esigenza di politiche che garantissero tutela e protezione ai cittadini e i lavoratori (il decreto dignità, il reddito di cittadinanza, quota 100), salvo frangersi contro gli scogli della crescita zero (attuale e futura, in assenza di azioni per contrastarla). Certamente queste politiche rappresentavano uno stop all’ambizione di accoppiare innovazione e sviluppo dopo l’accelerazione del Piano Calenda, che aveva riaffermato contemporaneamente la centralità della manifattura per la nostra economia, la centralità della trasformazione digitale per la nostra manifattura e la possibilità di governare lo sviluppo con politiche industriali smart, pesanti nella chiarezza della visione e leggere nei meccanismi applicativi.

La forza politica che nel Governo Conte I governava il binomio sviluppo economico-lavoro, pur concepita e comunicata come nativa digitale, non ha dedicato ai temi dell’innovazione che un’attenzione corriva e comunque secondaria rispetto alla gestione dell’”uovo oggi”. Come risultato, anche il 4.0 si è andato progressivamente annacquando: sono state positivamente inserite misure come il “digital innovation manager” ma la sensazione che l’abbrivio iniziale si sia esaurito è forte e corroborata dai numeri dell’iperammortamento in decisa flessione. Anche la scelta di tornare a concentrarsi su alcune tecnologie buzz come blockchain e l’intelligenza artificiale in luogo del sostegno alla trasformazione ad ampio spettro ha avuto il sapore del ritorno indietro. Questo non perché, sia assolutamente chiaro, queste tecnologie non sono strategiche, ma perché scegliere di focalizzarsi su tecnologie prima che su settori strategici e campi di applicazione delle tecnologie all’economia reale è un errore marchiano, soprattutto in relazione ad alcune caratteristiche del nostro Paese, sulle quali tornerò in seguito.

Se dovessimo aggiungerci ai corifei e ai consiglieri del nuovo Governo e del nuovo Ministro consiglieremmo perciò un deciso ritorno a politiche per l’innovazione ad ampio spettro, che prendano le mosse non da quello che è in alto nell’hype cycle di Gartner, ma dall’esigenza indifferibile di includere nei benefici dell’innovazione digitale quanti più pezzi del Paese reale, cittadini, territori e imprese, perché è li che si concentra l’unico potenziale di crescita e benessere.

L’Italia è un Paese piccolo e senescente, con poche grandi città, una sola metropoli competitiva a livello globale e un’enorme provincia, che ha storicamente coltivato una biodiversità culturale e produttiva complessissima ma straordinaria, da cui tra l’altro è nato il made in Italy, frutto soprattutto del lavoro di micro e piccole imprese, che rappresentano oltre il 99,4% delle imprese italiane, attive in pressoché qualunque micro specializzazione produttiva e presenti in filiere globali le più varie. Gli italiani sono straordinari a fare cose belle e funzionali e a risolvere creativamente problemi anche molto di nicchia. Tra la produzione di massa e la produzione discreta e su misura l’Italia ha sempre dato il proprio meglio sulla seconda. Un mercato interno troppo limitato e frastagliato non incoraggia d’altra parte lo sviluppo di un’economia dei servizi competitiva, se non a supporto della manifattura.

Il pregio di Impresa 4.0 risiedeva proprio nell’avalutatività delle scelte su quali tecnologie (o meglio quale cocktail di tecnologie) le mille nicchie del nostro manifatturiero avrebbero dovuto scegliere per la loro trasformazione digitale; le combinazioni sono esponenziali e continuamente in evoluzione a ritmi persino superiori a quelli del cambiamento dei nostri governi. Fuor di scherzo, una complessità risolvibile solo spostando le responsabilità del cosa fare sulle imprese, come correttamente faceva il Piano.

Piano che aveva però un bug fondamentale nella tardiva e insufficiente attenzione dedicata al tema chiave delle competenze: gestire la più massiccia trasformazione digitale mai esperita dal nostro sistema produttiva necessità di uno stock di competenze a tutti i livelli, propriamente allocate a seconda dei ruoli nella catena del valore, di cui oggi il sistema è assai carente. Competenze non solo verticali, sulle tecnologie e sulle loro applicazioni, che sono, insufficientemente, presenti, ma anche competenze orizzontali, necessarie a inserire tecnologia nelle decisioni degli imprenditori, nei processi produttivi, nei prodotti, nella visione di sviluppo dell’impresa (e anche dei territori dell’enorme provincia italiana). Come è stata possibile questa macroscopica sottovalutazione? Parafrasando Clemenceau: “la digitalizzazione è una cosa troppo complessa per lasciarla in mano ai tecnologi”, cosa che invece è accaduta.

Il policymaking ha seguito la linearità dello sviluppo tecnologico (e le esigenze dei venditori di tecnologia) e non la tortuosità del nostro sistema sociale e produttivo: al progredire incessante della tecnologia doveva accompagnarsi la sua incessante diffusione, secondo metriche di sviluppo e modelli (il TRL) completamente esogeni al nostro sistema sociale e produttivo. Non ci si sorprende dunque a posteriori del fatto che uno sforzo ciclopico non adeguatamente preparato ed assistito non abbia prodotto i risultati attesi.

Se volessi consigliare il nuovo Ministro le direi dunque di circondarsi non solo di ingegneri e lobbisti dell’high tech, ma anche di persone che sanno di impresa, di scuola, di comunità e di provincia perché bisogna mettere l’inclusione al centro dell’agenda, altrimenti non si spostano i numeri, né in termini di penetrazione delle tecnologie, né in termini conseguenti di crescita delle imprese e dell’economia. Consiglierei anche di chiamare subito il suo collega Ministro al MIUR e poi quello al Lavoro, per immaginare insieme un piano assai ambizioso di educazione permanente alle tecnologie digitali che includa i lavoratori e il mondo della scuola. Un piano ambizioso e in grado di guardare davvero al patrimonio di idee e di creatività che sono i nostri (troppo pochi) giovani, per mettere i cosiddetti nativi digitali immediatamente a disposizione delle imprese e delle comunità prima che perdano follia, fame e freschezza.

Se volessi consigliare il nuovo Ministro le direi anche, consapevole di sfidare l’impopolarità, di rimettere mano all’inutile e costosa illusione di dare vita a un ecosistema nazionale di startup in grado di alterare positivamente gli output economici e occupazionali. 10.075 nuove imprese innovative in sette anni, con una media di 3,1 addetti a impresa, nessun dato certo sulle prospettive di sopravvivenza e nessun unicorno in vista bastano per riconsiderare l’enfasi eccessiva posta su un provvedimento che ha beneficiato solo pochissimi intermediari. Non si tratta ovviamente di cancellare le start up, ma più realisticamente di rivederne i criteri definitori: con tutto il bene, una app per consegnare la pizza a domicilio non è una start up innovativa, è una microimpresa, che come tale dovrà essere aiutata senza alimentare inutilerrime illusioni né garantire status privilegiati rispetto a chi il medesimo giorno ha aperto una produzione di birra artigianale.

Da ultimo, consiglierei anche nelle grandi partite infrastrutturali (banda ultralarga, 5G, big data) di essere meno disattenti sulle ricadute sociali di queste trasformazioni tecnologiche, immaginando che fare scorrere e gestire meglio immense moli di dati debba cambiare in meglio la vita dei cittadini, delle imprese e delle comunità oggi marginali. Una connessione ultraveloce a cui attaccare servizi (sanitari, culturali, alle imprese) a valenza pubblica può rappresentare un magnete per quantomeno rallentare i processi di spopolamento e marginalizzazione di troppi territori.

Questo avrei consigliato al nuovo Governo e al nuovo Ministro dell’Innovazione se mi fossi avventatamente voluto unire alla già troppa folta schiera.

Mi limito invece a un più misurato augurio di buon lavoro, che sicuramente non mancherà.