Alcune notizie hanno la capacità di illuminare le evoluzioni delle vicende sociali, politiche ed economiche con una forza straordinaria, certo maggiore dei numeri che quelle evoluzioni certificano.
Due notizie emblematiche della crisi manifatturiera italiana
È il caso di due notizie che riguardano la crisi della nostra manifattura, oggi in una fase di generale, strutturale difficoltà: la decisione di Piaggio di spostare in India la produzione della mitica Ape e l’ennesima crisi di Bialetti, simbolo dei core value del made in Italy, design, semplicità, innovazione. Sono due avvenimenti molto diversi, il primo figlio dei cambiamenti della mobilità e della regolamentazione europea, il secondo triste, ed evitabile, risultato di una sequela di errori di valutazione e di disinvestimento nella manifattura italiana, finanche nei suoi simboli come la moka.
Entrambe rappresentano dei campanelli d’allarme per le sorti, troppo a lungo neglette, della nostra manifattura, al centro della tempesta perfetta di crisi di settori trainanti, il tessile e l’automotive, debolezza dei mercati di sbocco, guerre commerciali, rapida e imprevista trasformazione di partner in fortissimi competitori. A peggiorare le cose, la demografia italiana restituisce l’immagine di un Paese che invecchia, in generale e ovviamente nella sua forza lavoro, e perde imprese a tassi impressionanti (secondo il professor Giulio Buciuni, la provincia italiana ha perso quasi 60.000 PMI manifatturiere dal 2009 al 2021, circa 400 al mese).
Le sfide strutturali della manifattura italiana
Non difficoltà contingenti dunque, ma crisi che sovrascrivono il sistema operativo della nostra economia, la seconda economia manifatturiera d’Europa, alterandone profondamente i connotati. Pensare che basti laissez faire, laissez passer è un’illusione che nemmeno i più intransigenti difensori del Mercato condividono, dacché è evidente che le torsioni odierne nascono o da errori del mercato stesso, o da elementi che l’algoritmo del mercato non ha saputo processare, o da rivoluzioni della Storia (scritta maiuscolo), che devono necessariamente essere sminuzzate con le posate del governo perché gli stomaci dei mercati possano digerirle senza troppo dolore.
Bisogna dunque rimettere urgentemente mano alla nostra manifattura che soffre, ri-costruendo le condizioni di contorno perché un rinnovato tessuto manifatturiero possa tornare a fare quello che ha sempre fatto, quando gli è stato possibile: costruire e condividere valore massimizzando i nostri pregi fino a fare di un Paese piccolo e senza materie prime una potenza industriale.
Riscoprire il ruolo dei “terzisti”
Se smontare per ricostruire è sempre esercizio faticoso, esso ha però l’indubbio merito di farci scrostare e rinfrescare pensieri a cui non si dava più attenzione, riscoprendo quello che avevamo dato per scontato e languiva, ignorato in magazzino. È il caso del ruolo, tanto importante quanto denegato, del ruolo nella nostra manifattura dei cosiddetti “terzisti”, quella subfornitura che quasi mai appare, ma che rappresenta numericamente e qualitativamente la vera spina dorsale del nostro sistema produttivo. Non c’è praticamente settore produttivo, addirittura singola lavorazione, in cui una o più imprese italiane, quasi sempre artigiane o di matrice artigiana e di carattere familiare, non dicano la loro con soluzioni, flessibilità, creatività, qualità che il mondo e i suoi grandi brand ci invidiano (e acquistano). Senza la subfornitura, la spinta propulsiva di uno sciame di imprese diffuse, la narrazione del made in Italy non è storia, è leggenda dilettevole quanto inventata.
La crisi della subfornitura italiana
La crisi odierna della manifattura è per noi anch’essa e principalmente crisi della subfornitura, che soffre innanzitutto perché soffrono i clienti e i mercati di riferimento e perché la competizione globale a trazione digitale ha sempre meno attenzione alle componenti “cavalleresche” del business: per competere servono i fondi, per i quali è più facile acquisire le competenze nella forma di tutta l’impresa o andare dove macchine e uomini costano meno, fine della storia. Non c’è però solo il mercato cattivo: moltissime imprese figlie del boom economico chiudono per fine vita e mancanza di ricambio, poche delle poche energie del Paese sono incanalate verso il fare impresa, tantomeno nelle modalità del meraviglioso caos degli anni d’oro, la siccità demografica rende tutto più difficile.
La mancanza di attenzione alle microstrutture economiche
Scoraggiarsi è normale, per i numeri e le prospettive, ma anche perché si ha forte l’impressione di una conoscenza lacunosa del mondo che la statistica ci fotografa in gramaglie. L’impressione, non da studioso ma da praticante degli studi, è che l’interesse per le microstrutture della nostra economia sia da tempo assai ridotto, sostituito dalla mera statistica, che dovrebbe rappresentare il punto di partenza per l’analisi, non sostituirla. L’attenzione per le dinamiche e le sorti dei terzisti è, se possibile, ancora inferiore: essi esistono solo come aggregati di settore o di distretto, nuvole che crescono, o rimpiccioliscono, senza che si sappia bene cosa c’è dentro.
È un errore marchiano, sia perché dentro c’è molto della nostra forza, e debolezza, sia perché i terzisti hanno specificità, e punti di forza, comuni anche al di là dei settori e dei distretti produttivi. Analizzarli permette di estrarre il valore di chi funziona e di capire come e dove fare leva, anche in realtà molto diverse, per sostenere chi ha ancora qualcosa da dire, ma manca della spinta dei best performer.
Un libro che illumina una realtà troppo poco considerata
A questo errore cerca meritoriamente di porre rimedio il libro di Maria Gaia Fusilli,
Le strategie necessarie per competere oggi
Nella trama del racconto di realtà assai diverse per settore e territorio (c’è una maggioranza di lusso, ma non solo quello) si intravedono chiaramente alcuni punti in comune, che sono ormai i must per imprese che vogliano competere oggi:
- Anche senza diventare necessariamente brand, le imprese devono darsi una strategia di marketing, tanto in termini di racconto sofisticato del prodotto, quanto in termini di presenza discreta ma insostituibile per i propri clienti. L’obiettivo è quello di essere, e rimanere, insostituibili. Non “perché è sempre stato così”, come ancora troppi imprenditori pensano, ma perché, nella propria nicchia, il terzista evoluto è in grado di presidiare dinamicamente tutte le evoluzioni del mercato e del proprio ruolo, quasi sempre passando da produttori di “pezzi” a fornitore di conoscenza e valore aggiunto “attraverso” i pezzi e tutto il loro contorno.
- Il digitale (e in misura crescente la sostenibilità) sono requisiti non più assolutamente discutibili per aziende che vogliano avere un futuro. Anzi, propio alla luce del punto precedente, il libro dimostra chiaramente come i terzisti di successo siano proprio coloro i quali, sempre presidiando la loro nicchia, sanno offrire ai propri clienti soluzioni innovative basate proprio sulla doppia transizione.
- Tutto ciò ha come prerequisito fondamentale l’investimento ossessivo in competenze e capitale umano come il propellente (scarsissimo e volatile) che ha permesso all’impresa di prosperare e ancor più lo farà nel futuro. Da questo non si scappa, e ogni storia racconta di attenzione ai lavoratori, academy interne per la formazione continua e, ultimo trend in straordinaria crescita, politiche mirate di acquisizione di fornitori per garantirsi la pietra filosofale del loro saper fare. Quest’ultima pratica è a mio parere la più controversa, perché “privatizza” le competenze creando recinti di proprietà e soprattutto disbosca il territorio produttivo, abbassando la nostra biodiversità. Probabilmente è però un male necessario, ed è meglio che questa riorganizzazione passi per terzisti di successo che per fondi d’investimento con intenti predatori.
Nella scorrevolezza delle pagine, queste regole auree appaiono quasi banali nel loro essere chiare e ripetute, pur in contesti diversi, al punto che, forse, chi leggerà il libro con occhio esterno a questi fenomeni sarà tentati di domandarsi come mai non sia patrimonio più diffuso, contribuendo a mitigare gli effetti di crisi industriali che nascono in gran parte proprio perché tali regole sono state a lungo, neghittosamente, negate.
Le imprese italiane come (più o meno) felici individualità
La risposta ritengo risieda innanzitutto nella estrema individualità delle nostre storie imprenditoriali, strutturalmente legate, nel bene e nel male, all’energia, alle competenze e all’intuito di individui e famiglie e dunque assai dipendenti dalle loro fortune: le storie di successo sono storie di energie incanalate positivamente, mentre le crisi testimoniano quasi sempre la difficoltà di uno o più componenti del mosaico a leggere la realtà e adattarvisi positivamente. Qui le chiacchiere sulle dimensioni e sulla managerializzazione servono poco: ci sono imprese famigliari che vanno come treni e imprese organizzativamente modernissime che chiudono. L’imprenditoria italia è questa, diffusa, famigliare e legata alle persone, negarlo non è né sensato, né tantomeno utile.
Che fare?
La lettura più generativa che propongo è invece un’altra e passa per la salvaguardia e il rafforzamento delle energie che ancora ci sono e che rischiano se non sostenute di spegnersi. A questo dovrebbero ossessivamente essere dedicate le politiche pubbliche, a favorire il rafforzamento delle imprese che non sono campioni, ma non hanno ancora appeso le scarpe al chiodo, i mediani che hanno fatto grande e ricco questo Paese.
Fuor di metafora, servono attenzione e risorse per prevenire il disboscamento produttivo, accompagnando le imprese che hanno ancora qualcosa da dire nell’acquisire quella strategia digitale e sostenibile di cui parla il libro, nel prevenire che il proprio prodotto diventi commodity, nel non aspettare davanti alla porta apprendisti che non busseranno mai più. Serve una visione condivisa di modernizzazione innanzitutto del sistema produttivo che c’è, nella quale hanno posto quantità infinite di tecnologia e migliaia di start up a servizio di tutto ciò per cui la parola Italia nel business accende ancora una lampadina. Non politiche pubbliche eccessivamente complesse e inefficaci come Transizione 5.0, che presuppongono innanzitutto idee straordinariamente chiare da parte delle imprese, ma azioni e strumenti di accompagnamento per comprendere dove andare e acquisire le competenze per farlo.
Serve più di una politica industriale, serve una mobilitazione collettiva.
Immagini di Pietro Trivelli