Il Gambero Rosso ha recentemente pubblicato alcuni articoli, uno anche a firma di chi scrive, sulle trasformazioni dell’offerta gastronomica nelle città italiane investite dall’overtourism. Trasformazioni, è pleonastico ma utile ricordarlo, sempre nella direzione di una massificazione e omologazione dell’offerta, semplificata per incontrare più facilmente i gusti di platee che fruiscono dei luoghi nel modo rapido e stereotipato del turismo di massa generato dalla triade digitale voli low cost, alloggi in b&b, guide attraverso i social network.
Il turismo digitale rende tutto più semplice, immediato, raggiungibile, ma necessariamente schiaccia la prospettiva: masse di persone, moltissimi stranieri ma non solo, visitano pochi luoghi, vedendo poche cose di quei luoghi e principalmente mangiano, o quantomeno sono invasi da offerte di cibo, come se solo attraverso di esso passasse la conoscenza del luogo. Ecco dunque che l’evoluzione dei piani strada diventa, insieme a quello che succede ai piani di sopra (il mercato immobiliare) una cartina al tornasole estremamente attendibile dell’impatto trasformativo dell’industria turistica come importante, in taluni casi principale, elemento di creazione di valore per un territorio.
Il concetto chiave è quello della semplificazione: si riorganizzano le funzioni del commercio di prossimità, quello dei residenti, verso l’online o i centri commerciali e si lascia spazio alla grande distribuzione (che ha abbracciato la forma della guerriglia distributiva con i minimarket nei centri storici, che rispondono alle esigenze dei lavoratori dei servizi e dei turisti dei b&b) e alla ristorazione, anch’essa semplificata.
I cannoli siciliani (falsi) a Venezia, la porchetta e la cucina romanesca che invadono tutta Italia e l’improvvisa onnipresenza decontestualizzata di prodotti prima di nicchia, come la stracciatella e la ‘nduja, testimoniano della creazione, non pianificata ma nei fatti, di un patois gastronomico italian sounding a uso esclusivo dei turisti (che fanno esperienza di italianismo anche visitando un solo luogo) e progressivamente di chi si formerà nel gusto avendo a che fare principalmente con un’offerta simile.
Anche dove l’esperienza è comunicata (e tariffata) come “di lusso” la semplificazione sembra operare con le medesime logiche del low cost massificato: invece dei b&b i mega alberghi in palazzi storici, invece di (o a fianco alle) catene i brand del lusso massificato, invece del porchettaro, l’ennesimo bistrot firmato da uno chef stellato; sono solo stereotipi più costosi.
Non è un problema da poco, né riservato ai soli golosi ed esteti: l’omologazione del gusto, la consacrazione alle funzioni alimentari stereotipate di interi quartieri, la darwiniana scomparsa della ristorazione tradizionale indipendente e delle cucine sublocali, troppo complicate o troppo poco instagrammabili, si iscrivono pienamente in quei fenomeni di estrazione di valore che rendono il turismo di massa assolutamente insostenibile. Soprattutto per territori e società costruite nei secoli su presupposti completamente diversi, tra cui la difesa di una biodiversità identitaria, un’atmosfera che era elemento imprescindibile del genius loci, dal dialetto alla tavola.
Da Lisbona a Barcellona a Napoli, solo per citare tre città europee simili, tutte “porose“e bellissime anche perché intrise di microarchitetture sociali sghembe e complesse, il contrario delle foto da brochure, il grido d’allarme è unanime: il turismo di massa non è sostenibile, perché in cambio di una ricchezza (distribuita peraltro assai iniquamente, come accade per il valore basato sulla rendita) immediata distrugge ecosistemi sociali ed economici secolari. Perché l’overtourism è estrattivo e autofago, consuma e sputa.
Il paragone è con la pesca industrializzata: come il turismo di massa si focalizza su pochi luoghi (l’overtourism è anche un problema di distribuzione dei turisti nello spazio), anche la pesca industriale si concentra su poche specie altamente redditizie. Da un lato Venezia, Firenze, Roma, Napoli (o Cortina, Costiera Amalfitana, Taormina e Costa Smeralda), dall’altro branzini, orate, pesci spada e tonni rossi. Si omologa il gusto e si tira troppo la corda, finendo per porre queste stesse specie, oltre che gli interi ecosistemi marini, a grandissimo rischio.
Sarebbe utile fermare le attività di pesca per un periodo molto lungo, consentendo di ripopolare il mare, ma non è possibile: manca il consenso e soprattutto vi è un’economia, dei posti di lavoro, la vita di molte località costiere, che dipende dalle attività di pesca e non si può fermare. Ma si è scelto di limitare, regolamentare, istituire delle riserve dove non si pesca, limitare la pesca di alcune specie a rischio e soprattutto si è introdotto il fermo biologico, ossia la limitazione temporanea della pesca per consentire la riproduzione delle specie più minacciate dal prelievo indiscriminato.
Ora, non è realistico né probabilmente efficace pensare alla limitazione temporale delle attività turistiche, ci sono investimenti e occupazione da salvaguardare e, non da ultimo, trasformazioni dei tessuti urbani che hanno tempi di recupero assai più lunghi di quelli biologici. Ma qualcosa deve essere fatto per evitare che il territorio sia culturalmente, socialmente, ambientalmente, esteticamente depauperato senza possibilità di restituzione, ingenerando tensioni che già si vedono.
Senza furori ideologici, consapevoli dell’importanza economica del settore, ma anche dell’impatto complessivo della sua proliferazione incontrollata, bisognerebbe introdurre anche da noi un’agenda per la gestione gestione sostenibile dei flussi turistici e dei loro impatti at large. Non l’attuale “turismo sostenibile”, troppo di nicchia e supplementare rispetto a quello mainstream, ma un’agenda di contenimento dell’impatto del turismo perché, proprio come si fa con la pesca, la sua crescita indiscriminata non distrugga l’ecosistema su cui insiste. Vale certamente per i centri urbani, per luoghi fragili come le Cinque Terre, per la montagna devastata dallo sci alpino e dai tentativi sempre meno sostenibili di tenerlo in vita contro la natura e l’evidenza.
Come? Certamente attraverso la leva fiscale, ma andando oltre, ad esempio creando, sulla scorta di quanto si fa per la pesca, riserve integrali urbane, dove non si possono fare affitti brevi, i mercati vendono frutta e verdura e i locali sono fatti per i residenti. Tocca mettere mano al mercato? Certamente sì. Troppo radicale? Forse, ma sarebbe radicale anche perdere Napoli dopo Venezia e Roma.
Non potendo pescare tutto il tonno rosso delle città d’arte peraltro, ci si potrebbe finalmente anche ingegnare per la valorizzazione di quel pesce povero turistico che oggi è inesistente sulle mappe del torpedone di massa e ne guadagnerebbero tutti. Ne uscirebbe un Paese che, anche nella comunicazione esterna, è ancora più vario, vivo, affascinante di oggi. Anche per questo credo valga la pena spenderci una riflessione.
Illustrazione ©Andreu Zaragoza (thanks!)