Da qualche tempo, sul palcoscenico sgarrupato del nostro dibattito pubblico si sono affacciate questioni che richiamano il tema fondamentale della modernizzazione del Paese, della sua economia e società e delle istituzioni che le governano.
Prendo due temi tra i più sentiti e dibattuti in questi giorni, sempre con i limiti di un Paese distratto, in cui i media contano sempre meno e l’agenda della Politica vive alla giornata: il lavoro e le concessioni balneari.
Sono due temi distinti ma che si toccano e soprattutto danno la sensazione plastica di un conflitto in corso tra vecchio e nuovo ordine.
La pandemia ha accelerato molti fenomeni di cambiamento tutt’altro che inaspettati, alcuni anzi annunciati da anni, che oggi sono diventati realtà diffusa nella nostra carne viva. Sapevamo che il lavoro stava cambiando e che alcune modalità di fare impresa non erano più sostenibili, ma abbiamo avuto bisogno dell’innesco della pandemia per farci i conti davvero, come questione pressante e quotidiana.
Siamo in conflitto perché il nuovo ordine è arrivato e bussa alle porte, con l’impeto e la pervasività della fluidodinamica, e il vecchio ordine, non tutto sbagliato e certamente non tutto da buttare, resiste.
Un conflitto tra vecchio e nuovo ordine, economico ma anche sociale, è certamente quello odierno sul lavoro. Il lavoro è un tema straordinariamente importante e delicatissimo, che tocca quanto pochi altri la vita vera delle persone. Un tema, per cui non troppi anni fa si è tornati all’inaudito della violenza politica contro chi cercava di riformarne il mercato.
Dopo la pandemia, il lavoro è cambiato come poche volte è accaduto in modo così radicale e in un tempo così breve. Qui il nuovo ordine ha la fisionomia del “Big Quit”, le dimissioni di massa di persone che si sono stancate di fare quello che facevano prima, perché si vive una volta sola (YOLO), o semplicemente si è trovato di meglio. Non un fenomeno da nomadi digitali della Silicon Valley, ma una cosa vera, qui e adesso. Che suona strana se confrontate con le giaculatorie degli imprenditori che non trovano personale, perché nessuno vuole più spaccarsi la schiena.
Al di là dei toni di alcuni, non li biasimo, poiché si sono formati in un ordine in cui spaccarsi la schiena era la norma e la regola.
Tanta intraprendenza e voglia di lavorare in un contesto di pochi sostegni e pochissime regole erano il patto che ha consentito a una parte importante di questo Paese di prosperare davvero, il modello su cui si è informata una società a imprenditoria capillare e benessere (abbastanza) diffuso.
I figli e i nipoti di quegli instancabili lavoratori (ci sono anch’io) e i loro coetanei hanno studiato, magari viaggiato, e sicuramente sviluppato aspettative diverse dai loro nonni e genitori. Hanno scalato la piramide di Maslow, l’omaggio migliore al lavoro della generazione precedente, e oggi sono presi anche dal senso delle cose che fanno, dal bilanciamento vita-lavoro, finanche dall’idea che il lavoro sia un mezzo per vivere meglio e non un fine. Ci sta tutto nel 2022, quando la principale fonte di valore nel lavoro è la testa e non la schiena e le aziende più sofisticate, e desiderate, si contendono i talenti creando le migliori condizioni perché si possano esprimere, altro che rompersi la schiena (che poi nell’economia dematerializzata si lavori tantissimo è altra questione).
Anche la vicenda delle concessioni balneari da mettere a gara è innanzitutto un conflitto tra il vecchio ordine e le nuove regole, che non sono solo quelle dell’Europa cattiva che vuole espropriare i diritti acquisiti, ma un’idea quantomai diffusa nei paesi a capitalismo avanzato del valore dello spazio pubblico. Non penso che per più della metà delle spiagge ci sarà la fila a rilevare le concessioni e sarebbe quantomai ingeneroso bollare i balneari come grassatori. Sono imprenditori che hanno lavorato molto sodo e costruito aziende che hanno dato a lungo un’ottima rendita, ma oggi quel periodo è finito.
Soprattutto, e qui sta la principale fonte di ingiustizia generazionale, chi oggi volesse intraprendere quel percorso, in una spiaggia, in un ristorante, in un’azienda meccanica o di scarpe, lo farebbe in un contesto incomparabilmente più ristretto, regolato, meno accessibile. Non è ovviamente colpa di chi c’era prima o c’è adesso, ma se parliamo di lavoro e di impresa, non possiamo ignorare che le condizioni della “accumulazione primaria” di tanta parte della nostra base produttiva sono ora irriproducibili.
La lunghissima, lentissima e faticosissima transizione del nostro Paese alla modernità ha raggiunto con la pandemia il punto di non ritorno, quello ultimo, vero, definitivo. Quello in cui il Big Quit riguarda gli impiegati di aziende tradizionali nella sonnacchiosa provincia e il vostro albergo preferito non fa servizio ristorante perché non trova personale.
Allora bisogna scegliere, tra il Piano A e il Piano B.
Il Piano A è semplice, non fare quasi niente, salvo manutenere l’esistente, come più o meno si sta facendo. Significa tenere ancora un po’ la porta della modernizzazione socchiusa, magari sostenere che il reddito di cittadinanza (meno di 600€, che vanno per oltre il 75% a persone che lavorano ma guadagnano troppo poco o a chi non è in condizioni di lavorare) rappresenti una concorrenza al lavoro (con buona pace di tutti i significati extra economici che il lavoro ha sempre avuto). Oppure significa aggrapparsi alla politica, che investe pesantemente sulla negazione del cambiamento e sul vellicare le sue vittime e gli scontenti.
Tutto legittimo, ma non gratis. Significa anche che il Paese sarà sempre meno competitivo, che chi ha voglia e capacità o se ne andrà o farà il suo, e soprattutto che i pezzi di valore se li prenderanno gli altri. Il prezzo del Piano A è che un Paese che rifiuta di governare la modernizzazione la subisce. Quindi Milano sarà sempre più Milano (perché qui la modernizzazione corre, facendo morti e feriti, ma corre) e la provincia sempre più in crisi. Chi si sarà cavalcato la propria, di modernizzazione, si prenderà i pezzi migliori, del turismo, della manifattura, dell’immobiliare. Il resto si arrangerà.
Oppure si va per il Piano B, e si ragiona tutti insieme di un percorso serio e ambizioso di modernizzazione del Paese, per agire e non essere agiti. Modernizzazione per salvaguardare e portare di là, assegnandole un ruolo di primo piano, quella che ho chiamato “economia paziente”, ossia il mix di cultura, tradizioni, biodiversità, creatività, territorio e comunità operosa che ci rende unici, e che abbiamo il dovere morale di difendere, aggiornandolo.
Quali la visione e gli ingredienti?
Salvaguardia e rilancio della nostra capacità produttiva. In Italia si fanno ancora le cose molto bene, ma spesso e volentieri all’interno di organizzazioni e di mercati che non funzionano più, perché ad esempio sono cambiati i canali di vendita e i mercati di riferimento (ha senso ancora cercare di vendere scarpe alla Russia?). Servirebbe, ed è grave che non si trovi da nessuna parte, un lavoro molto profondo e capillare sulle trasformazioni dei settori produttivi e sul recupero delle capacità produttive ancora buone in settori decotti o legati a mercati, processi e prodotti senza prospettive. Lo fanno le singole imprese, ma dovrebbe essere oggetto di politiche pubbliche, perché quello è il nostro tesoro.
Transizione tecnologica e digitale, per davvero. Si sono perse e si stanno perdendo troppo tempo e troppe risorse sulla transizione digitale, senza affrontare un tema nodale: come traghettare fisicamente le imprese, quante più imprese “buone” possibile, nel nuovo paradigma, nel quale devono utilizzare le tecnologie per quello che possono dare in quel settore, ascensore necessario per competere oggi. Vale per una pizzeria, una carrozzeria, un sarto come per un’azienda più complessa e strutturata. Vanno benissimo le infrastrutture, bene il trasferimento tecnologico, ma servono tanti Noè, da lì non si scappa.
Prima di tutto le competenze. Mentre, per ragioni di bassa cucina politica, ci si concentra sui supposti effetti concorrenziali del reddito di cittadinanza verso i lavori a basso valore aggiunto, le imprese contemporanee, e perfino le pubbliche amministrazioni, soffrono una drammatica fame di competenze, che non si è arrestata nemmeno nei mesi bui della pandemia. Mancano ingegneri, tecnici, persino operai specializzati, ed è un problema enorme, che frena imprese che potrebbero crescere e spreca coorti di ragazzi e ragazze che studiano la cosa sbagliata o sprecano il loro tempo. Bisogna riallineare domanda e offerta di competenze, investire massicciamente nella riqualificazione della forza lavoro, reindirizzare le scelte delle famiglie e degli studenti. Insomma, gestire con intelligenza la forza lavoro che c’è.
I territori non devono sfuggire alla modernizzazione. Il nostro sistema produttivo ha ancora una fondamentale componente territoriale, espressa in distretti, filiere, culture e tradizioni. Modernizzare la nostra economia e la nostra società significa modernizzare i territori su cui esse poggiano, perché siano loro per primi più attrattivi e qualitativi, per chi c’è e per chi dovrebbe venire o tornare. Anche la cosiddetta vocazione turistica, o la nuova attrattività per i lavoratori nomadi, non hanno alcun senso senza elementi irrinunciabili come i trasporti pubblici, la banda ultralarga, delle scuole adeguate, degli orari europei, un ambiente ben conservato.
Avere senso del senso del lavoro. La crisi del lavoro post pandemia è anche, globalmente, una crisi di senso e di affezione al lavoro. Di fronte a un avvenimento così epocale, molte persone hanno capito che il loro lavoro non valeva il loro tempo o hanno colto altre opportunità di un mercato in fermento. Nell’etica della schiena rotta il senso del lavoro ha pochissima cittadinanza, si lavora innanzitutto o si lavora e basta. Oggi non è più così e bisogna tenerne conto. Il senso è però un costrutto sociale e individuale, un valore attribuito a qualcosa, che può cambiare. Per chi lavorava in fabbriche sporche e rumorose, il sogno di riscatto poteva essere quello di fare sì che i propri figli lavorassero in giacca e cravatta in un ufficio lindo e ben condizionato, magari con l’auto aziendale. Oggi non è assolutamente più così, sono cambiate le gerarchie e i valori.
Il mio amico Nino Barraco, vignaiolo eccelso di Marsala e contadino laureato, tornato alla terra per scelta e contro il parere della famiglia (che fa ancora tantissimi danni influenzando le scelte lavorative dei figli), fa un lavoro molto più sensato, interessante e utile dei quattro quinti degli avvocati e dei consulenti. In un Paese che peraltro, e non è un caso slegato da quello di cui si parla qui, registra tassi di nascite ridicoli, i pochi lavoratori disponibili dovranno essere attratti da condizioni di lavoro, remunerazioni e senso competitivi. Serve il marketing del lavoro, a partire dalle professioni del Made in Italy, ferme quasi tutte all’anno zero.
C’è dunque moltissimo da fare, forse troppo, ma per la prima volta ci sono un po’ di risorse. Il PNRR, che come ha detto l’economista Gianfranco Viesti è un programma di modernizzazione del Paese, può e deve essere letto proprio in quest’ottica di “messa all’altezza” dell’Italia nel tavolo da gioco della competizione globale. Un punto di partenza dunque, che affronta quei nodi burocratici e infrastrutturali che frenano la modernizzazione sistemica e diffusa dell’Italia. Lo fa con millemila problemi e difetti, anche strutturali, ma ne abbiamo tremendamente bisogno.
Da lì possiamo partire, per costruire un Paese a economia paziente e a prova di futuro.