Seppur oscurato dalla ridda di eventi dell’ubriacatura di Storia a cui stiamo assistendo, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) sta entrando nella fase cruciale del suo percorso quinquennale di investimenti europei finalizzati a cambiare profondamente il nostro Paese, come il resto dell’Unione.
Al netto di possibili (probabili? necessari?) aggiustamenti derivante dalla tempesta perfetta in cui ci troviamo, il 2022 e 2023 dovrebbero rappresentare gli anni in cui si concentrano i maggiori investimenti del Piano, che dovrà giungere a compimento nel 2026 secondo un programma serratissimo di traguardi (risultati qualitativi) e obiettivi (risultati quantitativi) intermedi. Al raggiungimento di questi sono indissolubilmente legati i pagamenti dei ratei dei 191,5 miliardi di € che compongono il PNRR italiano tra fondo perduto e prestiti (e altre risorse addizionali di diversa provenienza). Se i piani sottoposti dal Governo alla Commissione Europea, e da questa approvati, non saranno rispettati nelle tempistiche, le risorse non saranno erogate, punto.
Proprio la cogenza dei tempi di realizzazione delle misure del Piano, che riguardano principalmente le pubbliche amministrazioni centrali e locali, ne rappresenta oggi l’elemento di maggiore preoccupazione: non c’è amministrazione, grande e piccola, in zone ricche o in zone depresse, dinamica o lenta, che non manifesti estrema preoccupazione circa le tempistiche del PNRR e la capacità di rispettarne le (sinora) ferree scadenze. Questo per limiti intrinseci alle pubbliche amministrazioni, innanzitutto quelle locali e in particolare i comuni, che da anni sono andati riducendo gli organici a partire da quelle figure in grado di fare progettazione, anche strategica. Di più, anche in presenza di risorse (che pure, ed è male, non coprono l’assistenza tecnica) queste amministrazioni non trovano progettisti, nemmeno come risorse esterne sul mercato.
Ritengo che tale mancanza di figure professionali e di capacità di pianificazione strategica, a cui non riescono a sopperire le assunzioni del Governo, rappresenti innanzitutto la conseguenza di un cambio di direzione troppo veloce e troppo radicale nei paradigmi dello sviluppo economico durante e dopo la pandemia. Il blocco immediato dell’economia di mercato, che già faticava e creava scontento diffuso dalle grandi crisi finanziarie, ha improvvisamente aperto la strada al ruolo di powerbank dello Stato e della spesa pubblica, a cui è stato chiesto di indicare nuovi obiettivi (la transizione ecologica, keynesismo in purezza) e di apportare nuove risorse per quegli investimenti macro necessari a fare ripartire il mercato con nuova energia, nuovi obiettivi, nuove determinanti del valore.
Le pubbliche amministrazioni, mai state del resto organizzazioni rapidissime, hanno accolto questo cambio di paradigma mentre erano ancora completamente immerse nel loro trentennale processo di dimagrimento, che come tutte le diete fai da te ha bruciato grassi ma anche massa muscolare. Sacrificate sull’altare del risparmio (e del populismo) le Provincie come corpo intermedio e autonomo di governo dell’area vasta ma non vastissima, che rappresenta la dimensione più rilevante di governo dei processi nel nostro Paese, le misure del PNRR pongono un peso insostenibile (per loro stessa ammissione) sui comuni, ossia essenzialmente sul grado di dedizione, passione, capacità e disponibilità dei Sindaci e di poche altre persone. Nè è pensabile che il testimone venga raccolto dalle Regioni, per molti versi comprimarie nel Piano e soprattutto con troppe competenze e aree troppo vaste da governare.
Riconoscere i limiti e i rischi del PNRR non vuol dire ovviamente disconoscerne la portata storica e i meriti di chi è riuscito ad ottenere un tale credito da quella stessa Unione Europea che fino a poco tempo prima ci considerava il nipote scapestrato a cui non dare più un centesimo. La pandemia, insieme ai timori di tenuta dell’Unione per una crescita preoccupante di pulsioni politiche centrifughe, ha modificato per nostra fortuna questo quadro e ha attenuato la sfiducia e le ritrose.
Nell’ottica di vincere queste stesse ritrosie, però, si è presentato un Piano che innanzitutto piacesse molto, per impegni e obiettivi, a chi queste risorse doveva concederle. Dunque un piano, come ha acutamente notato Salvatore Viesti, che “non nasce da una «visione del paese» cui tendere, ma dall’assemblaggio di (utili) progetti (e che) non ha comportato un dibattito pubblico con le rappresentanze politiche ed economico-sociali. (…) più un programma di modernizzazione che di trasformazione strutturale del paese (e che) punta a miglioramenti/efficientamenti.”
Il PNRR è dunque innanzitutto uno strumento per rendere l’Italia un po’ più simile agli altri Paesi: più digitale e infrastrutturata, più green, più attenta alla formazione alla ricerca, più equilibrata socialmente e territorialmente. Ciò è ovviamente un bene, anche se il raggiungimento di questi condivisibili obiettivi non è passato per un coinvolgimento collettivo nella costruzione dell’agenda e nelle metodologie e tempistiche per raggiungerla. Con una battuta si potrebbe dire che il PNRR dell’Italia è poco italiano.
Questo è evidente in alcune misure, come il contestato Piano Borghi, che attribuisce risorse straordinariamente rilevanti (20 milioni di euro) per la modernizzazione di un pugno (21 in totale) di frazioni di paesi, ignorando quanto in questi anni è stato pensato e praticato sulla rivitalizzazione delle aree interne. Confesso che a prima vista ho pensato che un simile progetto rispondesse più alla visione del pittoresco degli europei del grand Tour che all’esperienza concreta di governo delle zone più complesse del nostro Paese.
Lo penso ancora, come penso che necessariamente qualcosa del Piano dovrà essere modificata. La guerra in Ucraina e ancora prima il rincaro dell’energia e delle materie prime, pesano e peseranno su molte misure, dai tempi della transizione verde ai costi di posa dei binari dell’alta velocità. In questa necessaria ridiscussione entrerà, dovrà entrare, anche la discussione sulle tempistiche dei bandi pubblici che gravano sui comuni, nonché un approccio più realistico alla distribuzione territoriale delle risorse, che correttamente premia il Mezzogiorno con il 40% dei finanziamenti a fronte però di nessun intervento per consolidarne la quasi inesistente capacità progettuale, pubblica e privata.
Al contempo penso però anche che sia possibile e doveroso lavorare perché, anche a tempi e obiettivi invariati, il PNRR diventi realmente patrimonio delle comunità a cui chiede di correre e a cui promette risorse necessarie alla ripresa. Imprese, terzo settore, cittadini, devono rendersi edotti e protagonisti di quello che il Piano comporta, delle risorse in ballo (per la propria comunità innanzitutto, al di là di quei 191,5 miliardi, che fanno girare la testa e confondono solo) e del potenziale di cambiamento che contiene. Senza nascondere le criticità, ma aprendo, soprattutto nelle piccole comunità, a percorsi di coinvolgimento e co-progettazione, che sono necessari e che soli possono mitigare l’ansia di non essere in grado di cogliere le sfide.
Così, un Piano nato per come l’Europa vorrebbe l’Italia può diventare anche una grande e feconda riflessione e pianificazione su come l’Italia vede se stessa nel futuro. È necessario perché questa occasione non venga sprecata. Lo è ancora di più oggi per marcare la distanza tra la democrazia e la sua pratica, faticosa ma necessaria, e tutte le alternative, che sono molto peggiori.