Emilio Leo è un raro e affascinante esempio di intellettuale/esteta/imprenditore. La sua impresa, il Lanificio Leo, è la più antica impresa tessile calabrese, fondata nel 1873. Oggi è l’unica impresa rimasta in attività di un distretto della tessitura della lana costituitosi nella Sila attorno alla pecora silana, una razza particolarmente vocata per la lana, ma pressoché estinta in una delle innumerevoli campagne di modernizzazione della nostra agricoltura e del nostro sistema produttivo che hanno modernizzato poco e distrutto tanto. Architetto di formazione, Emilio Leo ha riaperto la tessitura chiusa, fatto un museo delle macchine che raccontano quasi 150 di storia della cultura materiale e avviato la produzione di capi straordinari per qualità e creatività, anche grazie alla collaborazione con designer internazionali. È anche direttore creativo del gruppo Rubbettino, tipografia e casa editrice raffinatissima e principale azienda di un paese di 3000 anime, Soveria Mannelli, che conta un’altra azienda di arredamento a fortissima vocazione esportatrice e dunque tassi di imprenditorialità più vicini al Veneto che al Mezzogiorno. Innamorato del suo territorio e della Calabria, organizza festival culturali e artistici di grande livello e tiene conferenze sullo sviluppo locale e il rilancio del territorio.
Emilio Leo e la sua impresa sono, da ogni punto di vista, un’eccellenza, una realtà di straordinaria qualità, a sua modo un’isola, bellissima ma, appunto, isolata. Lo ha fatto capire, nel corso di una breve ma piacevolissima conversazione, lamentando le difficoltà, ben solite, a “fare sistema”: trovare interlocutori pubblici che ascoltino problemi e progetti e rispondano con politiche, trovare giovani interessati ad apprendere il mestiere invece di emigrare, costruire offerte turistiche in sinergia con le produzioni locali. Parliamo di un’impresa matura, sofisticata e consapevole, che è a casa propria nel mondo e che magari ha relativamente bisogno dell’intorno, ma che orgogliosamente tiene al proprio territorio e vorrebbe e potrebbe fare di più. Quanto più cresce, però, tanto più purtroppo misura la distanza tra sé e un ambiente circostante che non solo non è eccellente, ma non è minimamente attrezzato per convivere in modo fecondo con l’eccellenza, che resta lì.
La stessa voglia di spendersi per il proprio territorio, e la stessa solitudine per mancanza di interlocutori, l’ho ritrovata il giorno successivo parlando con Luisa Fabrizi, anche lei architetto, che è tornata dal Nord Europa con il lockdown per occuparsi della splendida tenuta di famiglia, un convento del 1492 vicino a Soverato, una potenziale eccellenza. Luisa, uno dei cervelli che anche in Calabria sono rientrati grazie alla pandemia e vorrebbero rimanervi, ci ha raccontato dei suoi progetti per il turismo, ma anche per la tutela e il rilancio dell’identità storica e culturale di quell’area splendida della Calabria, anch’essa maltrattata da una modernizzazione brutta e gretta. Anche sulle sue parole era posato un velo di polvere per la difficoltà a individuare interlocutori, a capire dove andare e ad andarci insieme. La polvere della solitudine e della fatica, che rende fare cose belle in Italia così difficile e rapsodico. Perché chi fa bene, e ha voglia di fare ancora più e meglio, si sente troppo solo.
Ho pensato spesso in quest’estate in giro per la Provincia italiana al concetto di eccellenza, per concludere che con andrebbe più utilizzato, proprio perché in qualche modo centra con la solitudine di cui dicevo.
Abbiamo attraversato borghi, assaggiato cibi, visitato luoghi, dalla Sicilia alle Marche, che reclamavano il loro pezzetto di eccellenza, per capire che il concetto, e l’ideologia sottesa, non funzionano più, sono scarichi e anche un poco pericolosi. Scarichi per abuso, per eccesso di autopromozione a “eccellente”, senza alcuna ragione o pezza di appoggio. Pericolosi perché, se non gestita con cautela (e non c’è stata alcuna cautela), l’ideologia dell’eccellenza è intimamente escludente, senza glutine, inutile in un momento in cui bisogna crescere insieme.
L’ideologia dell’eccellenza permea oggi due categorie ben distinte. Da un lato i tecnocrati, che intimamente credono che l’Italia funzionerebbe meglio se fosse più selettiva, disponibile con i migliori e fatalista con gli altri. Dall’altro tutti quelli che abusano del termine eccellenza per provincialismo, o scarico di coscienza. I primi pensano che i secondo siano i primi degli ultimi, che la corsa dei miliardari nello spazio sia una cosa bellissima e che bisognerebbe essere più selettivi. I secondi pensano che stiamo bene così, che nulla in fondo debba cambiare ed evolversi, e utilizzano le supposte eccellenze come prova che siamo il paese più bello del mondo. Innovatori e conservatori che si rincorrono e si abbracciano.
Da allergico all’ideologia dell’eccellenza (non alle cose effettivamente eccellenti), penso che le cose stiano un po’ diversamente. Il nostro territorio è ricolmo di luoghi, prodotti, monumenti, belli, affascinanti, interessanti. Alcuni, per forza pochi per la curva gaussiana, sono indubitabilmente eccellenze, la maggior parte sono affascinanti tessere di un mosaico fatto di migliaia di differenze, che compongono dall’alto un disegno quello sì eccellente per la ricchezza e la varietà.
La magnifica fontana trecentesca di Fontecchio (AQ), paese di 300 abitanti nel quale ci siamo imbattuti per puro caso, nella foto sopra ne è un esempio. Non è un’unicità, è pochissimo visitata e ci sono pochissime informazioni anche in Rete, ma è certamente molto affascinante e architettonicamente e artisticamente di gran pregio. È una tessera del mosaico, cosa che non le sottrae alcuna importanza, ma la ricollega a una dimensione più propria, lontana dall’eccellenzismo e più vicina al nostro sentire profondo.
Da appassionato di sviluppo locale, se guardi le tessere del mosaico troppo da vicino, vieni colto da un senso di vertigine e scoramento per la decadenza che attanaglia questi luoghi in via di spopolamento (ovunque), per lo spreco di bellezza (e l’indigestione di bruttezza relativa a tutto quello che è stato costruito dopo gli anni ’40, ma è possibile?) e per l’impresa impossibile di valorizzare e “vendere” tutto questo patrimonio. È troppo.
La chiave me l’ha data Daniele Colitti della Coop Sherpa, un educatore ambientale che svolge un ruolo preziosissimo di animazione della sua comunità: non bisogna “vendere”, bisogna innanzitutto creare le condizioni perché quelle stesse comunità, ora enormemente interconnesse, stiano bene e producano benessere, e per questo siano attraenti come quelle donne che sono molto più belle quando sorridono. Come mi ha detto un artigiano nelle Marche: “mi sono messo a fare scarpe perché questo era l’unico mestiere che mi permettesse di vivere qui, dove sono nati mio nonno e mio padre”. C’è dichiarazione d’amore più profonda per una terra?
La fontana di Fontecchio e le mille altre tessere che compongono la cultura ambientale, materiale e produttiva del nostro Paese (dai cappelli ai fagioli) sono il portato di comunità locali che erano meno interconnesse e più povere, ma più vitali e attente al proprio benessere.
Ora ovviamente non si tratta di tornare pasolinianamente a quando c’erano le lucciole, ma di pensare che i borghi rinasceranno, o non moriranno, se recupereranno una loro dinamica interna, per quanto ombelicale, per quanto non costellata di supposte “eccellenze”, una buona media. Questo deve essere recuperato, l’attenzione a una buona, onesta, media senza essere schifiltosi e inseguire modelli non sostenibili da nessun punto di vista, sociale, economico e ambientale. Quando parlo di sostenibilità penso a quell’isola delle Eolie che ho visitato questo agosto, magnifica ma assolutamente traboccante di spazzature e cinta d’assedio da migliaia di barche, un’eccellenza museificata prima e svenduta poi.
Nel complessivo ridisegno di stampo keynesiano dell’economia europea post pandemia, soprattutto guardando al tema della sostenibilità ambientale, la questione del riavvio di dinamiche interne ai borghi della Provincia italiana non è rimandabile, perché non tutte le leve risiedono nel livello urbano, né è possibile immaginare di riempire semplicemente le case di smart worker, colonizzando la campagna di cittadini.
Serve lavoro innanzitutto, ma i territori che ho visto e lo scenario del dopo pandemia ne richiedono tantissimo. Servono nuovi agricoltori, perché il cibo è sostenibile se accorcia le catene di approvvigionamento troppo lunghe e la terra buttata via è una bestemmia. Servono manutentori, perché innanzitutto il territorio, i boschi e le strade non possono cadere a pezzi, servono persone che abbiano voglia di riaprire i bar, i ristoranti e le botteghe artigiane, approfittando di chi ha voglia di insegnare il mestiere, servono muratori per ristrutturare i centri storici e magari abbattere qualche orrore contemporaneo. Servono poi scuole per imparare questi mestieri nella loro declinazione contemporanea e servono, molto, integratori di sistema che lavorino per mantenere insieme i progetti. Infine, servono tutte le eccellenze vere che ci sono, ovunque in Italia, per instillare quell’energia e quella visione che solo loro hanno. Bisogna ascoltare quello che hanno da dire, e mettere a disposizione le infrastrutture per permettere loro di dare il meglio.
Con tutta la tecnologia e l’innovazione possibile, ovvio, ma senza nessuna idea aristocratica. Non si fanno nuove eccellenze farlocche, si manutiene lo sfondo del mosaico e si fanno vivere bene le singole tesserine.
È possibile? Prima della pandemia sarebbe stata una follia, oggi è un’utopia necessaria.