Sono un modesto, e soddisfatto, correntista della Banca Popolare di Sondrio.
L’agenzia è davanti al mio ufficio a Roma, in zona Colosseo, gli impiegati sono cortesi, preparati, molto disponibili. Non è forse la banca meno costosa, né la più tecnologica, ma funziona assolutamente bene per me e a quanto pare anche in termini di solidità finanziaria (ne ho comprato anche qualche azione, di nuovo perché mi faceva piacere partecipare al progetto).
La Banca Popolare di Sondrio, pur avendo una curiosa articolazione territoriale anche lontano dalla Valtellina, è sempre stata saldamente identificata con la Valle sin dalla sua fondazione nel 1871. La sua sede è in un palazzotto ottocentesco giallo con il tetto di ardesia, che affaccia sulla centralissima piazza Garibaldi, il salotto della città, a fianco al celeberrimo Hotel della Posta, a lungo anche il ristorante più rinomato. La Banca ha origini nel cooperativismo cattolico, nel piccolo risparmio di famiglie di contadini di montagna presto a letto e prestissimo in piedi, a tirare la carretta e a risparmiare. Sono radici magari poco estetiche ma assai solide e, per chi come me conosce quella Valle essendo per metà valtellinesi, molto profondamente radicate.
Insieme alla sorella Credito Valtellinese, la Banca Popolare di Sondrio ha per molti anni rappresentato un unicum almeno nazionale, potendo vantare due banche di rilevanza nazionale in una provincia, benché assai risparmiosa, di meno di duecentomila abitanti. Le due banche erano il fiore all’occhiello della Valtellina, possedevano e acquistavano molti degli immobili più belli, facevano mecenatismo sociale e culturale, prendevano i ragazzi più brillanti che sognavano una carriera da direttore di banca. Qualche anno fa il Credito Valtellinese è entrato in una spirale di conti sballati ed è diventato banca a rischio, molto lontana dalla solidità montagnarda che ha mantenuto la sorella posata, che ha anche rifiutato il matrimonio preferendo rimanere da sola.
Qualche anno fa, però, il Governo Renzi ha approvato una riforma delle banche popolari che obbliga le banche con attivo al di sopra degli 8 miliardi di Euro alla trasformazione in SpA, rimuovendo per legge quei vincoli alla scalabilità degli istituti che avevano reso le popolari (legate culturalmente e nella pratica al modello comunitario e distribuito, in virtù del quale nessuno poteva possedere più di una frazione della banca). La Banca Popolare di Sondrio aveva presentato ricorso al Consiglio di Stato contro quest’obbligo, ma il 31 maggio un pronunciamento dell’organo ha sancito la legittimità dell’applicazione della riforma alla banca valtellinese e dunque l’indifferibile trasformazione in società per azioni entro fine anno.
Questa decisione, attesa, ha immediatamente messo in moto quello che la frusta fantasia del giornalismo finanziario definisce da anni “Risiko Bancario”, ossia il meccanismo di fusioni e acquisizioni tra gruppi bancari in nome della massa critica e della competitività. Un meccanismo benedetto da Mario Draghi già al tempo del governatorato di Banca d’Italia, in nome della creazione di gruppi bancari più solidi e capitalizzati, al fine di buttare via l’acqua sporca di di crisi patrimoniali e quella lurida di gestioni parrocchiali e discutibili del risparmio e del credito, che hanno distrutto economia dal Triveneto alla Toscana al Mezzogiorno.
Ha senso, perché troppo spesso le camarille localistiche, gestite da élite provinciali culturalmente inadeguate e attaccate al proprio potere a dispetto di tutto, hanno fatto danni, non capendo quando fermarsi, cambiare, passare la mano. Questa è l’acqua sporca, che va bene scaricare.
In quell’acqua nuota però anche un bambino, fatto di finanza, politica, storia e cultura locale. Magari è gracilino, forse addirittura bruttarello per alcuni, ma assomiglia ai suoi genitori, ne è l’espressione e nessuna persona per bene lo butterebbe via con il bagnetto.
Eppure, in concomitanza con la sentenza del Consiglio di Stato, UnipolSai (Emilia Romagna, radici nella cooperazione “rossa” ma ormai soggetto slegato da ogni appartenenza), ha accresciuto la propria partecipazione nella Banca Popolare di Sondrio raggiungendo il 9%. Secondo le ricostruzioni dei cronisti del Risiko bancario, questa mossa è propedeutica alla fusione tra la Banca Popolare di Sondrio e la BPER-Banca Popolare dell’Emilia Romagna, già controllata da Unipol, un gruppo che ha aggregato ex popolari locali dall’Emilia Romagna al Piemonte, dal Lazio alla Sardegna. Sempre che nel frattempo non intervenga la fusione tra PBER e il Banco BPM, nato dalla fusione tra la Banca Popolare di Milano e un altro gruppo di popolari tra Verona, Lodi e Novara, che vorrebbe acquisire per non essere acquisito a sua volta da Unicredit.
Personalmente il tema del Risiko in sé mi avvince assai poco, mentre mi interessano ben di più le conseguenze, che si possono anticipare in analogia con quanto accaduto nelle precedenti edizioni del Risiko.
Invariabilmente, i soggetti che nascono da queste fusioni e acquisizioni in nome della massa critica e delle razionalizzazioni sono territorialmente (e ostentatamente) acefali, orientati al non luogo o al massimo flessibilmente inclini verso “mercati” locali, finché interessanti. Unipol sta costruendo un grattacielo a Milano accanto alla torre Unicredit, molto simile a un grattacielo di Londra, che è poi il vero riferimento culturale di codeste operazioni. Qui forse si prenderanno le decisioni strategiche che riguarderanno anche la banca della Valle e nel palazzo giallo in Piazza Garibaldi resteranno le funzioni periferiche, attribuite a un mercato di meno di duecentomila abitanti.
Magari, spero proprio di no, mi dispiacerebbe molto, decideranno di chiudere la mia filiale o di sostituirne gli ottimi impiegati con sempre meno personale, sempre meno formato, spingendo i clienti a disertare le filiali per l’online, come hanno chiuso i negozi di prossimità per i centri commerciali e poi per Amazon, salvo piangere lacrime di coccodrillo. Perché il senso finale del Risiko è una defatigante corsa contro il tempo per ritardare l’inevitabile: se tutte le banche devono rispondere solo alla massima efficienza organizzativa e al massimo profitto derivante dallo sfruttamento della maggiore massa critica, probabilmente in un mercato come l’Italiano non servono più di tre gruppi bancari, magari anche due. Non solo, chiunque abbia anche un cursoria frequentazione con il mondo fintech e insuretech ha capito da tempo che buona parte delle funzioni sono digitalizzabili e quei tre gruppi bancari e tre assicurativi (ma potrebbero essere anche molto meno meno) potrebbero viaggiare sui medesimi algoritmi, che oggi stanno scrivendo ragazzini in India, Israele o forse a Cremona. Algoritmi che per funzionare, minimizzando i rischi sugli affidamenti e le coperture a livelli oggi impensabili, necessitano del 10% della forza lavoro attualmente nel settore. Già oggi, un’ottima fintech offre soluzioni di credito alle PMI che si attivano in meno tempo e con meno informazioni di una polizza online per lo scooter, e che hanno un tasso di accoglimento delle domande del 25%. Il lato un po’ oscuro di questa (e)voluzione è che il capitale razionalizzato non è paziente, soprattutto per gli individui e le piccole imprese esistenti: potremmo così trovarci con banche digitalizzate che offrono velocemente credito a chi non ha alcun inciampo ma sono inflessibili con chi, dopo tre crisi economiche durissime, non è senza macchie, mentre la finanza brucia capitali nel gratta e vinci delle start up, con lo Stato a fare welfare per gli esclusi.
Certamente anche in Valtellina, come nel resto della Provincia italiana, le banche locali avrebbero potuto e dovuto sostenere con più convinzione processi di ammodernamento e di irrobustimento della base produttiva, di consolidamento del sistema educativo e delle competenze, di anticipazione dei mutamenti del mercato e di apertura a nuove identità territoriali pronte a sostituire quello che non andava più. Anche qui, con differenze di sobrietà di gestione che non sono da poco, hanno prevalso più interessi consolidati e conservatori che energie innovative, e forse l’inevitabile annacquamento dell’identità territoriale della banca avviene non avendo dato corpo a tutte le potenzialità. Resta il dato che la Provincia italiana ha perso negli ultimi anni rappresentanza politica (con l’abolizione delle Province e il taglio dei parlamentari), rappresentanza economica (con la fusione delle camere di commercio) e autonomia economica (con la fusione delle popolari e la razionalizzazione delle banche di credito cooperativo). L’autonomia culturale e quella produttiva se ne sono andate da tempo, senza eclatanti misure legislative né Risiko, ma con il carsico svuotamento dei distretti produttivi e l’omologazione culturale. Senza questi mattoni, la Provincia diventa Periferia, di Milano, di Roma, di Londra.
Non è questione di campanili, tutt’altro. I campanili hanno prodotto queste situazioni e permesso che si si ritenesse non solo possibile, ma anche auspicabile, disarticolare ogni elemento della governance della Provincia italiana. Quello che si è disarticolato non è stato rimontato diversamente e meglio, è rimasto smontato e ha prodotto marginalità o, tutt’al più, ha prodotto restituzioni magari efficaci, ma certamente a macchia di leopardo e non in grado di ricostituire quel capitale che è stato perso.
Da questo punto di vista, la vicenda della Banca Popolare di Sondrio è in piena continuità con tutti gli accadimenti degli ultimi dieci anni e la pandemia non ha portato alcuna riflessione in controtendenza sul rapporto tra territori e sulla necessità di non sguarnire la Provincia di ogni presidio. Anzi, non è irrealistico pensare che il combinato disposto tra nuovo ruolo dello Stato nell’economia, valenza sovranazionale del Recovery Fund e pessima performance della gran parte degli enti locali nella gestione della pandemia porti ad un’ulteriore spinta alla razionalizzazione dei sistemi di governance in direzione di una loro centralizzazione. Non per ammodernare e migliorare anche radicalmente le differenze culturali e produttivi per farne ragione di valore per il futuro, ma per fonderle e razionalizzarle, come le banche locali.
Non sarebbe un buon affare per la nostra Provincia, e dunque per il nostro Paese.