Dal palco del Digital summit di Capri, il Ministro per l’Innovazione Paola Pisano ha per la prima volta delineato la sua agenda, vasta e impegnativa come si deve a un ministro appena insediatosi e ancor di più alla titolare di deleghe tanto vaste quanto generiche. Occuparsi di governare i processi di innovazione in Italia reca con sé un protocollo ormai consolidato di promesse, entusiasmo, autocritica, impegno a fare meglio e altrettanto consolidati sono i numeri e le caratteristiche del sistema: tanta diffusione di device e connessioni, tanta offerta di servizi innovativi, tanta PA digitale ma ancora troppo pochi utenti e troppo poca economia (ossia sviluppo e lavoro da digitale).
La sovrabbondanza di offerta è il risultato dei tanti, tantissimi, soldi e energie spesi sulla base dell’assunto che digitalizzando la PA e obbligando i cittadini e le imprese a utilizzare il digitale per alcuni adempimenti (gli F24 prima e le fatture poi), questo avrebbe avviato il volano della digitalizzazione e che l’obbligo sarebbe divenuto opportunità e poi piacere. Non ha funzionato, se non per une frazione dei risultati che sarebbe stato lecito attendersi per gli sforzi profusi (e ovviamente per i venditori di tecnologia e gli affabulatori di innovazione, per cui va sempre bene o benissimo). Altrettanto, ne ho già scritto qui, non ha funzionato l’idea della palingenesi del sistema economico a botte di super aziende innovative, rivelatesi gracili piantine di serra, né della diffusione dei campioni digitali, influencer con troppi pochi follower per combinare qualcosa.
Poiché l’innovazione è un’attitudine culturale che si deve trasmettere ad azioni concrete, si comprende benissimo la necessità che quest’attitudine sia costantemente sostenuta da un apparato retorico, uno storytelling, che tenga alta la pressione e desto un sistema pronto a sbadigliare. Per questa ragione anche il nuovo storytelling del Ministro Pisano, basato sul concetto di “diritto a innovare”, deve godere della sospensione dell’incredulità che meritano tutti gli sforzi di piegare un poco la realtà a fin di bene. Ciò concesso, la nozione di diritto è troppo seria e preziosa perché la si annacqui: i diritti, quelli veri, sono un bene fondamentale per gli individui e la società e l’inflazione di diritti porta necessariamente a una loro perdita di valore, cosa che deve essere evitata, soprattutto dove nessun diritto è minimamente conculcato.
L’approccio del Ministro, ribadito pubblicamente a Capri, è già presente nel secondo dei tre punti delle sue dichiarazioni programmatiche: “il secondo è un punto per me è molto importante ovvero il diritto a innovare. Se sei una startup, un’azienda piccola media micro o una grossa impresa, noi ti dobbiamo offrire un ecosistema che ti supporti nell’innovazione. Non dobbiamo continuare a legare l’innovazione con pratiche burocratiche e amministrative ma dobbiamo vedere quello che gli innovatori fanno e, in base a quello, riuscire a ristrutturare il nostro ecosistema fatto di norme e processi”. Ancora, “in questo modo se sei un bravo innovatore e porti all’interno del nostro paese una crescita economica, tecnologica, di competenze, ma anche un approccio sociale e etico noi abbiamo il dovere di supportarti e farti crescere, a livello nazionale, ma anche a livello internazionale. Quindi l’Italia diventa un partner di tutti quegli innovatori che vogliono venire da noi, che ci credono ancora, e vogliono crescere all’interno del nostro paese e scalare in Europa”.
Decostruiamo un attimo lo storytelling: esistono torme di innovatori capaci e volenterosi e un sistema Paese che calpesta i loro diritti a essere innovatori a botte di burocrazia, lacci e lacciuoli. Ma è davvero così? E soprattutto la soluzione è davvero quella di prevedere, come annunciato dal ministro a Capri, una “deroga speciale alle leggi per consentire a startup e aziende che vogliono sperimentare un servizio innovativo di avviare un pilota sul campo, purché accettino di farsi monitorare da tutte le autorità regolatorie che hanno titolo per ficcare il naso nel progetto”? Non credo e, con il dovuto rispetto, ritengo che questa sia ancora una volta un’analisi sbagliata che apre la porta a soluzioni sbagliate che ci troveremo a commentare tra qualche anno (e qualche Ministro), pescandole dalla cesta sempre piena degli errori.
Perché? Perché altri (anzi, fatemelo dire, ben altri) sono i problemi e di conseguenza altre e altrove sono le soluzioni.
Il problema sistemico (ossia quello maggioritario, principale, realmente bloccante) dell’innovazione in Italia non sono gli innovatori ai quali non è concesso esprimersi. Certamente vi saranno, come c’è di tutto in un Paese che è contraddistinto dalla massima varietà di qualsiasi cosa, incluso il numero più alto di sport praticati e di tipologie di formaggio, ma sicuramente non rappresentano “il” problema reale. Soprattutto, in un Paese che ha concepito una legislazione speciale e favorevolissima per le start up non ricavandone sostanzialmente nulla, sarebbe fondamentale una moratoria ad ogni specialità: si può e si deve fare impresa (e dunque innovazione continua) con gli strumenti ordinari e senza fare figli e figliastri come dimostrano migliaia di imprese italiane di ogni dimensione. Al massimo gli strumenti ordinari possono e devono essere messi a punto, abbassando le tasse, facendo perdere meno tempo possibile e formando il capitale umano, la cui mancanza è oggi il vero tappo all’innovazione. Oggi le imprese innovatrici sono troppe volte rallentate dalla mancanza di figure professionali in grado di dare corpo ai progetti, utilizzare le tecnologie, ripensare processi e prodotti. Quella sul capitale umano che non si trova è la prima e principale tassa sugli innovatori in Italia e andrà risolta anche riallineando le scelte individuali degli studenti con le dinamiche economiche (si legga anche disincentivando l’afflusso a facoltà inutilerrime come Giurisprudenza o Scienze della Comunicazione, molto meglio un buon ITS).
Riallocare il capitale umano potrebbe anche rispondere al secondo fondamentale problema dell’innovazione in Italia: che ci sono troppo pochi innovatori, almeno innovatori spontanei, e che non riusciamo a “clonare” gli innovatori e a passare dai talenti al sistema. Chi frequenta professionalmente le imprese italiane si rende immediatamente conto che esse ricadono essenzialmente in tre categorie, che io chiamo lepri, cavalli e fossili.
I primi sono gli imprenditori smart, innovatori nati, curiosi e capaci di assorbire ogni stimolo, trasformandolo in innovazione. Le lepri sono lepri indipendentemente dalle loro dimensioni, da dove operano, dal loro background. Sono dei talenti che, con strumenti assolutamente ordinari, creano imprese, le fanno crescere, metabolizzano ogni tecnologia utile anche prendendola da campi molto diversi, hanno come mercato il mondo.
All’estremo opposto sono i fossili. Sono spesso anziani e periferici, sono poco competenti e stanchi. Magari hanno detto la loro ed è finito il ciclo, oppure hanno approfittato di qualche rendita di posizione, ma comunque oggi sono fermi, disinteressati e anzi refrattari a ogni forma di innovazione.
In mezzo sono i cavalli, che possono essere velocissimi purosangue o lentissimi ronzini, elevarsi a lepri o precipitare tra i fossili. Questo è il vero capitale di sviluppo bloccato, ancora più grande se applichiamo la medesima tripartizione non solo alle imprese, ma anche ai territori e alle altre forme di organizzazione sociale.
La sfida così si rovescia rispetto allo storytelling del Ministro: non si tratta di coccolare pochi (supposti) innovatori incompresi, ma di allargarne la platea, sostenendo l’attitudine a sperimentare modi diversi di lavorare e fare cose, anche grazie alle tecnologie, che devono recuperare il loro ruolo principale di strumento abilitante dell’innovazione prima che di fine in sé.
Come si allarga la platea degli innovatori? Ovviamente non ho e forse non c’è una ricetta, ma alcune suggestioni sì.
La prima suggestione riguarda il cambiamento dello storytelling dell’innovazione: l’enfasi sulla tecnologia è di grande appeal per i tecnofili e le lepri, ma lo è molto meno per i cavalli. Chi non ha il pallino della tecnologia, ma è ad esempio un ottimo produttore di scarpe su misura, deve sapere che alcune soluzioni tecnologiche (foot scan per le misure, blockchain anti contraffazione) gli permetteranno di lavorare meglio anche sapendone molto poco di come funzionano, come accade con le tecnologie di maggior successo, che sono eleganti perché non si vedono quasi.
La seconda riguarda il sistema dei servizi e delle competenze che deve sostenere e accompagnare l’allargamento della platea degli innovatori e che è quasi totalmente da costruire ex nihilo. Spero che il progetto di Scuola Mobile sul digitale che TIM ha annunciato sempre a Capri possa avere successo ma, quand’anche lo avesse, serviranno millemila progetti di trasmissione delle competenze digitali per tutti coloro che ne sono attualmente tagliati fuori. Tutte le competenze digitali del Paese, comprese quelle degli innovatori incompresi, devono essere arruolate per accompagnare questa transizione. Se ne faccia materia di alternanza scuola-lavoro, si istituisca un servizio civile, si diano crediti formativi e bonus fiscali ma si lavori presto e bene a un grande piano di socializzazione e alfabetizzazione digitale con obiettivi ambiziosi ma realistici e misurabili di inclusione per cittadini e imprese.
Sono certo che il Ministro Pisano non farà mancare la sua energia e il suo entusiasmo di innovatrice vera a un simile progetto. Per coccolare gli innovatori avremo tempo, prima dobbiamo produrli.
L’immagine © PRONTO 3D BY NEMESI è di una innovazione digitale di un’impresa lepre.