Il Coronavirus è riuscito nell’impresa di mettere in discussione il primato delle metropoli nel “secolo delle città”
Sovvertendo improvvisamente e violentemente il senso positivo che eravamo soliti dare alla densità urbana, pilastro dell’economia di agglomerazione, abbiamo improvvisamente cominciato a vedere le nostre città nude e struccate come qualcosa di meno affascinante. Viviamo, almeno i piccoli borghesi come il sottoscritto, consciamente in città per essere parte di un flusso che frulla dentro casa e fuori, socialità e lavoro, acquisto e intrattenimento. Spento il ventilatore, interrotto il flusso, precipitano a terra tutti gli elementi della scenografia e le città vuote sono malinconiche come i luoghi di mare d’inverno, le case troppo piccole senza un fuori. Persino il trade off di noi padani tra tenore di vita e salute dei polmoni sembra meno geniale quando le città spente restituiscono aria pulita e pesci inaspettati che nuotano nei canali di Venezia.
Nella Fase 2 “fai da te” che ci aspetta questa malinconia può diventare tedio e pericolo, le file interminabili per ogni servizio, la socialità come rischio, la mobilità come avventura.
Per questa ragione negli ultimi giorni alcuni osservatori, “archistar” di rito urbano ortodosso, hanno cominciato a guardare con inedito interesse ai borghi e alla campagna, alla provincia, come valvola di sfogo per le città nell’epoca del distanziamento sociale, e dunque della negazione di una delle regioni d’essere delle città.
Personalmente sono alquanto intrigato anche da prima del virus dalle possibilità offerte dalla provincia, soprattutto dove come da noi provincia è, o almeno era, tutt’altro che non luogo. Mi convincono invece molto meno le proposte di Stefano Boeri tanto sulla paternalistica “adozione” dei borghi da parte delle aree metropolitane, che hanno abbastanza da fare di loro, quanto sulla strategia nazionale per i borghi, un po’ perché una strategia nazionale per le aree interne già c’è, molto perché in cattività ho sviluppato una diffidenza radicale verso qualsiasi capacità strategica del nostro Stato centrale. Ciò detto, l’interesse di nuovi e illustri adepti per il fuori città è in sé un dato rilevante da cui partire per ragionare, non impressionisticamente né troppo liricamente.
Su cosa? Non tanto sulla “dispersione” delle persone sul territorio, che francamente puzza un po’ di spazio vitale e di colonialismo urbano, quanto su qualcosa di più semplice ma molto più radicale, un ripensamento delle catene del valore territoriale nell’ambito di un possibile ripensamento delle catene del valore economico e dell’organizzazione sociale e del lavoro. Vastissimo programma da provare ad affrontare senza strategie nazionali, comitati di esperti, lamenti sulle risorse, ma con provinciale lentezza srotolando il groviglio di buone idee, ottimi propositi e ancora migliori pratiche che questo tempo avaro di soddisfazioni ci ha nonostante tutto regalato.
Perché il vero tema a mio avviso è, ora che abbiamo acquisito una nuova coscienza di luogo (per mille ragioni, perché non possiamo muoverci, perché abbiamo scoperto l’esistenza di Codogno e facevamo il tifo per i bergamaschi, perché abbiamo capito che produrre tutto in Cina può dare dei problemi) come possiamo sfruttarla per non far morire quella provincia che fino a febbraio moriva d’inedia mentre tutti guardavano solo a Milano, Londra e Hong Kong?
Non si tratta di vendere qualche casale per il week end in più sull’Amiata o in val Nure ai romani e ai milanesi che scappano dai luoghi di mare. Non si tratta nemmeno e solo di risorse, non me ne vogliano gli amministratori locali alle prese con salti mortali e infinite quaresime. Ovviamente ogni problema territoriale è anche un problema di risorse, da trasferire e fare girare a supporto di economie non totalmente artificiali o dipendenti dalla mano pubblica, ma non è serio pensare allo sviluppo solo in questi termini. La fame di risorse delle aree interne dopo decenni di ristrettezze è comprensibilmente enorme, in alcuni luoghi manca tutto, a cominciare dai servizi essenziali, ma nella prossima corsa forsennata alle risorse pubbliche (che qualcuno dovrà pagare) le stesse aree interne saranno ancor più vasi di coccio del solito.
Penso che oggi si tratti per i territori della provincia di farsi venire delle buone idee, approfittando di una finestra temporale (e certamente temporanea) nella quale le gerarchie che li vedevano sempre e comunque sconfitti nei confronti delle aree metropolitane si sono sospese. Non durerà, ma potrebbe essere che da questa sospensione si uscirà con qualche assetto diverso e con qualche prospettiva in più per quei territori che avranno saputo farsi venire (o copiare) un’idea e svilupparla.
Un’idea su cosa? Sulla propria identità, sulle potenzialità inespresse, sulla ragione per la quale qualcuno dovrebbe trasferirsi in quel territorio, andarci a lavorare, realizzare un investimento o anche solo farci un giro, sui punti di forza, sulle comunità di riferimento a cui rivolgersi. Queste idee, questa consapevolezza, hanno un valore inestimabile e possono fare la fortuna di un territorio.
Non devono per forza essere idee costose, non devono provenire dal cervello a tassametro di un consulente di una big five. Possono essere idee semplici ma geniali come il m-commerce che ho sperimentato giorni fa, basato su una videochiamata whatsapp che ti permette di interagire con un commesso nella scelta di un capo di abbigliamento, surrogando a costo zero e in modo credibile l’interazione umana necessaria nell’esperienza di acquisto di alcuni prodotti. Possono ancora più semplicemente essere degli atti rivoluzionari di responsabilizzazione e ascolto della cittadinanza dopo mesi di “state a casa che già la vita è dura, non vi ci mettete anche voi”.
Servono idee per evitare il tragico effetto eco, tipico di molto del dibattito pubblico italiano, nel quale si prende un’idea anche discreta e la si ripete tutti finché non si spegne, esausta.
In questo senso, a chi avesse la tentazione di pensare che la semplice diffusione del telelavoro (che non è smart working se non ha obiettivi, logiche, subordinazioni e organizzazioni diverse da quelle dell’ufficio fordista ancora in voga) cambierà la distribuzione delle persone sul territorio suggerisco di andarsi a vedere un mio vecchio pallino intellettuale: Colletta di Castelbianco. È un borgo sull’Appennino savonese che guarda il Mar Ligure che divenne addirittura alla fine degli anni ’90 del secolo scorso il primo borgo cablato d’Italia, dotato nientemeno che di una intranet di paese, con l’obiettivo di attrarre lavoratori della conoscenza in un posto obiettivamente straordinario. Meraviglia che non funzionò e non solo perché era obiettivamente troppo avanti con i tempi. Colletta di Castelbianco era una deliziosa chiesetta (non cattedrale) nel deserto del de-sviluppo ligure, ritagliata su Sophia-Antipolis ma senza il parco scientifico e la meraviglia di Nizza e Cannes a pochi chilometri.
Anche a distanza di 20 anni e dopo il Covid ritengo che poche persone sarebbero seriamente disposte a prendere il proprio portatile e i propri affetti stabili e trasferirsi semplicemente in un luogo anche carino ma che non offre nulla, figuriamoci in quella tanta provincia italiana che ha perso nel tempo fascino e identità, se li ha mai avuti. Anche la partita fondamentale della banda ultralarga, senza che vi siano attaccate delle idee su come utilizzarla per farne un reale elemento di nuova salute (telemedicina), socialità (servizi di sussistenza ma anche di intrattenimento alle persone che vivono nelle aree interne), sviluppo (potenziamento digitale delle imprese esistenti e di creazione di nuovo lavoro) rischia di essere un’occasione persa, buona tutt’al più che per l’ego e i bonus di un pugno di manager e amministratori.
Cosa si fa allora per non perdere questo ennesimo treno? Una cosa purtroppo poco italiana, si progetta, ci si da una missione, si coinvolgono i cittadini attorno a un’idea. Mi ha molto colpito in questi giorni un articolo dell’ottima Cristina Tajani, assessore a Milano, sulla strategia di adattamento del Comune per la Fase 2, esplicitata e poi sottoposta al giudizio e ai consigli dei cittadini, i quali “sono parte della soluzione, non del problema”, come lo possono essere i designer ai quali la città più stilosa d’Italia chiederà un contributo per riaprire i locali al pubblico. Nella più massiccia regressione all’infanzia mai sperimentata dalla fine della Seconda Guerra mondiale, trovo molto importante che la più dinamica città italiana si ponga l’obiettivo di trattare i cittadini da adulti, spiegandogli le prossime mosse e addirittura chiedendo il loro parere.
Se avessi responsabilità di governo di una qualsiasi area della provincia prenderei buona nota di quello che hanno fatto a Milano e andrei a caccia di buone idee per il mio territorio. Mi muoverei per cerchi concentrici, cominciando dal consultarmi con gli abitanti, poi coinvolgendo le scuole, le università (se non tromboneggiano troppo), le imprese, le associazioni e chiunque abbia voglia di fare qualcosa, poi mi allargherei a chi è andato via, chiedendo ad ognuno contributi, impressioni, suggerimenti. gli chiederei di non farmi la consueta lista della spesa, ma di imporsi di volare alto, immaginare, anche sognare. È una stupidaggine daMaria Antonietta? No signori miei, di liste della spesa sempre uguali, di mancanza di idee si muore. Passerei molto tempo, o chiederei di passarlo ai ragazzi, su Internet a cercare cosa hanno fatto altri posti come il mio, anche in Australia, a cercare comunità compatibili da ingaggiare. Se non avessi tempo e strumenti per farlo chiederei di farlo ai ragazzi, alla cui intelligenza e creatività possiamo e dobbiamo chiedere molto di più. Mi piace citare il caso di Ulassai, un minuscolo paese dell’Ogliastra in Sardegna che ha puntato sulle montagne per attrarre, facendoli fare, una comunità internazionale di free climber, liberi di arrampicare e animare il territorio.
Liberi è un aggettivo che in questi giorni di mancanza di libertà ha riacquistato la forza evocativa peculiare delle parole magiche. Abbiamo perso la libertà e ancora stentiamo a ritrovarla, ma soprattutto alcune restrizioni della libertà e dipendenze costose dallo Stato dettate da inderogabili esigenze sanitarie potrebbero diventare da temporanee a semi-permanenti. Penso che la provincia potrà cogliere positivamente questa finestra di attenzione se riuscirà a declinare in più modi possibili il tema della libertà, di chi adesso vi abita e di chi potrebbe andarci a vivere.
Penso alla possibilità di provare a ricostituire, come nel caso di Ulassai con i climber, comunità di artisti, lavoratori della conoscenza, artigiani, meno pressati economicamente e socialmente che in città, attraverso un scambio tra spazi di vita e di lavoro (che non mancano in provincia) e contributi all’animazione delle comunità locali e al lavoro, per fare crescere le competenze locali, rilanciare specializzazioni produttive, innalzare il livello dei sistemi locali di istruzione.
Penso al tema, oggi dolente, degli anziani. Le città, lo abbiamo scoperto con sdegno in questi mesi di scandali nelle RSA ma potevamo intuirlo anche prima, non sono un “paese per vecchi”, come non lo sono per i bambini, e lo saranno sempre meno. Diventare comunità di cura, ma anche di nuova socialità, per persone anziane, sostenute da strutture sanitarie anche digitali all’altezza, può rappresentare una missione “dolce” e raggiungibile per molti territori, oltre che un motore di lavoro.
Penso dall’altro lato al progetto di reshoring, di rientro della manifattura in Italia. Se non sarà, come purtroppo è probabile, un boutade sciovinistica e non sarà gestito con il solo metro miope dei burocrati e del consenso politico, il reshoring può essere davvero un strumento potentissimo di rinascita della provincia, per trattenere popolazione e attrarne e richiamarne di nuova.
Tre suggestioni che hanno in comune un progetto, una comunità, un’idea che non sia la semplice manutenzione dell’esistente o la ricorrente richiesta di nuove risorse, che senza nuova economia servono a molto poco.
Serve uno scatto di reni, subito, prima che la finestra si richiuda.
Ph: Bruno Panieri