I primi atti, retorici e concreti, del Governo Meloni hanno evidenziato un’attenzione tiepida verso le tematiche della trasformazione digitale e dell’innovazione. Lo dimostra il limbo nel quale è finito il 4.0, la derubricazione del Ministero di Vittorio Colao a un Sottosegretariato, le polemiche evitabili su SPID e documenti digitali.
La digitalizzazione del Paese, della PA e della sua economia non paiono essere percepiti come priorità. Cercandone la ragione, si potrebbe speculare sulla tradizionale minore attenzione di certo mondo conservatore alle tematiche dell’innovazione, soprattutto se si considera l’obiettiva distanza tra il milieu culturale delle attuali forze di maggioranza e certo ethos globalista e omologatore di marca californiana. O forse, più semplicemente, le cose da fare sono troppe e l’assenza dell’innovazione dall’agenda del Governo è dovuta più a disattenzione che a contrarietà. Qualunque siano le ragioni di questa evidente flessione, è necessario che l’attenzione dei policymaker torni a destarsi, per non perdere ulteriore terreno nella competizione globale.
Poiché sperare non costa nulla, sarebbe auspicabile non solo una ripresa dell’impegno sull’innovazione da parte del nuovo Governo, ma anche che questo impegno insistesse su una visione nuova e diversa dalle precedenti, segnando una nuova partenza. Una nuova partenza in direzione di una maggiore attenzione alle dinamiche reali e “placed based” della nostra società, della nostra geografia e della nostra economia, per proiettarle più solide e competitive verso tempi che si annunciano strutturalmente complessi.
Ad esempio si dovrebbe dare una base digitale a due concetti che hanno accompagnato la formazione del Governo Meloni come il Made in Italy e la sovranità alimentare. Oggi né il Made in Italy né la sovranità alimentare (che ne è parte costitutiva) sono pensabili senza una solida trasformazione digitale di imprese (a partire dal tessuto di micro e piccole), prodotti, processi, approccio ai mercati, competenze del capitale umano.
In tutti questi ambiti, ci sarebbe spazio per l’utopia di una nuova e originale politica industriale per la transizione digitale (e sostenibile) del nuovo Governo: più attenta ai luoghi, agli ecosistemi, alle persone perché parte di un disegno di sviluppo più attento alle peculiarità locali. Una scelta non di rimessa, ma dichiaratamente attenta a valorizzare la biodiversità esistente, contrapposta all’approccio più “integrazionista” del governi precedenti, che poneva l’accento più sull’omologazione che sulle differenze e che non ha penetrato la corteccia di molta parte del Paese.
È un sentiero strettissimo, ma che se si potesse percorrere, a partire da un’indagine condotta dal Parlamento sulla realtà e le prospettive del Made in Italy nell’era della doppia transizione, sul modello di quella del 2016 su Industria 4.0 e con un’analoga capacità di convertire la conoscenza in politiche, porterebbe risultati straordinari. Ancora di più perché, lo dimostrano inequivocabilmente i fatti di questi giorni a proposito del Covid in Cina, la crisi permanente è destinata a rimanere tale, rinnovandosi di continuo e producendo continui nuovi problemi e possibilità.
A chi fosse interessato ad esplorare le possibilità di immaginare nuovi e originali percorsi di innovazione, e anche ai semplici curiosi del tema, consiglio come lettura imperdibile il libro dell’economista israeliano-canadese Dan Breznitz “Innovation in Real Places: Strategies for Prosperity in an Unforgiving World” (Oxford University Press, 2021).
Il libro mette radicalmente e salutarmente in discussione alcuni assunti delle politiche di innovazione consolidate in tanta parte dell’Occidente, Italia compresa. Breznitz punta il dito contro la tendenza, che alligna in particolare tra i tecno entusiasti, a confondere l’innovazione, che è l’inserimento di nuove idee e soluzioni nel corpo vivo della società e dell’economia, con l’invenzione, che è la scintilla dell’idea, romantica e fondamentale. L’invenzione è ovviamente importante, ma non può né deve essere valore in sé, e soprattutto oggetto ossessivo di politiche messianiche che da essa fanno dipendere sviluppo, lavoro e benessere. Nella quasi totalità delle economie più evolute, a fare la differenze è l’innovazione, ossia la capacità di fare evolvere i sistemi produttivi locali anche e soprattutto grazie alla tecnologia.
Con esempi frutto di anni di ricerca e osservazione in tutto il globo, tra cui le calzature della Riviera del Brenta e la filiera globale della bicicletta, Breznitz invita coloro i quali progettano le politiche pubbliche per l’innovazione a guardare innanzitutto al potenziale di quello che c’è e al proprio posto all’interno della divisione globale del lavoro per trovare il proprio posizionamento competitivo. Un elemento, quello del posizionamento ottimale nelle catene globali del valore, poco considerato dai tecnologi, ma centrale in un momento di forte rimessa in discussione di processi e gerarchie storicamente definite. L’invito chiaro è ad investire sul consolidamento e la modernizzazione dei sistemi economici esistenti e con dei potenziali di sviluppo, che in Italia erano e restano quelli del middle tech, invece di inseguire fascinazioni, come le infinite “Valley”, senza senso e prospettive se non per i proponenti.
Le tesi del libro, affascinanti, assai ben documentate e provocatorie per un mondo, quello dell’innovazione, che tende perniciosamente al conformismo, possono certamente essere di ispirazione per chi voglia immaginare “da outsider” percorsi di innovazione e trasformazione dei sistemi produttivi in grado contemporaneamente di guardare in avanti e di non perdere di vista, anzi di esaltare, quello che c’è.
Dove c’è così tanto, come nel nostro Paese, è una strada felicemente obbligata.