L’Italia avrebbe bisogno di un po’ di psicomotricità per re-imparare e coordinare corpo e mente, riportando in equilibrio quelle tensioni, ora sopite, ora esplosive, tra politica, società e articolazione territoriale di un Paese giovane e antichissimo, lungo e stretto, pieno di “rughe”, montagne e storia.
Ci si prova da tempo, con maggiore o (molto) minore successo, a governare i flussi della coperta cortissima di una popolazione anziana e in diminuzione, che tende come nel resto del mondo a concentrarsi “dove succedono le cose”, lasciando scoperti tanti luoghi fondamentali della nostra formazione culturale, estetica, sociale, produttiva. Luoghi che, mentre perdono grip con la contemporaneità, si marginalizzano e si spopolano, a volte a ritmi da esodo biblico.
Che fare di questi territori e paesi che non contano più è diventato un tema di grande rilevanza nelle politiche pubbliche, per ragioni culturali (stiamo perdendo parti del territorio e dell’identità), politiche (lo scontento di chi rimane diventa consenso populista e anti sistema) e sempre più pratiche (il territorio abbandonato diventa fragile e vittima di disastri sempre più frequenti e gravi).
Anche il PNRR dedica al tema della prevenzione delle spopolamento molte misure e una mole enorme di risorse, soprattutto nei cosiddetti Bandi Borghi, promossi dal ministero della Cultura. Parliamo di 1 miliardo di €, del quale ben 420 milioni sono stati concentrati per la rigenerazione di soli 21 borghi in Italia, 1 per regione, che a volte raggiungono a stento il centinaio di abitanti. Una misura così rilevante in termini di risorse non poteva non lasciare scontenti, soprattutto in Italia e soprattutto in un settore, quello della riflessione e della prassi sulla rivitalizzazione delle comunità locali, che in Italia ha uno dei suoi nuclei di eccellenza mondiali.
Proprio nei giorni in cui le risorse del Ministero di Franceschini sono state assegnate anche ai 229 ulteriori borghi (a fronte di 1800 candidature), che portano a casa 380 milioni di € (i restanti 200 andranno alle imprese), un editore attento al tema come Donzelli ha pubblicato due saggi collettivi che cercano di fare luce sul tema, sui limiti delle scelte del Governo e su cosa si è fatto, si poteva fare e si dovrebbe fare, per riparare il solco sempre più profondo tra la polpa e l’osso del nostro Paese, tra le aree metropolitane che crescono (alcune ben di più di altre) e le aree periferiche che deperiscono.
“L’Italia lontana. Una politica per le aree interne” a cura di Sabrina Lucatelli, Daniela Luisi e Filippo Tantillo racconta la storia del più ambizioso e visionario tentativo di invertire la rotta del depauperamento sociale e culturale delle zone più remote del paese: la Strategia Nazionale delle Aree Interne. Un programma che offriva, prima che risorse, un metodo, competenze e tanta passione per consentire alle aree interne (quelle zone del paese fisicamente lontane dai servizi essenziali) di immaginare e dare vita, maieuticamente, a percorsi di progettazione di servizi e modelli di sviluppo in grado di frenare o invertire la discesa. Padre della SNAI, che con una intervista a tutto campo apre il libro, è Fabrizio Barca, figura affascinante di civil servant e intellettuale di radici comuniste e anglosassoni, che ha immaginato un programma di interventi che portassero lo Stato nelle comunità lontane, con attenzione persino maniacale a utilizzare le energie locali, anche a scapito del ruolo ambiguo delle élite della provincia italiana, sempre in bilico tra il ruolo di guida delle comunità smarrite e di freno alle nuove energie non allineati.
Con tutti i limiti che il libro evidenzia, e un paio di cui parlerò dopo e che non sono menzionati, la SNAI è stata non solo un tentativo straordinariamente generoso di considerare il tema dei luoghi non contano come una primaria questione etica e politica nazionale, attorno alla quale mobilitare le energie migliori dello Stato ad esaltare quelle dei luoghi. È anche una lezione pratica sul senso e le possibilità che il lavoro pubblico, quella PA che il rapporto Istat descrive in tutta la sua fragilità e sulle cui fragili spalle il PNRR ha messo il Mondo, potrebbe avere per il nostro Paese.
Dispiace ancora una volta constatare che la politica abbia scelto altre strade, non solo nel merito, dove ha preferito al labor limae della SNAI la lotteria del Bando Borghi, ma anche nel metodo, con un ritorno al centralismo anche nelle soluzioni a valenza locale, che o sono imposte dall’alto o applicano la finta democrazia del chiedere cosa si vuole a chi non ha gli strumenti per capirlo.
Di questo, e di molto altro, si lamenta con colta veemenza “Contro i borghi. Il Belpaese che dimentica i paesi” a cura di Filippo Barbera, Domenico Cersosimo e Antonio De Rossi. Anche in questo pampleth collettivo echeggia la nostalgia per la SNAI, anche se il focus della polemica è il concetto di Borghi, come definizione pigliatutto di decenni di riflessioni e politiche sullo sviluppo locale. Pigliatutto, le risorse economiche e l’immaginario diffuso, e riduttiva di un mondo fatto anche di brutto, di campagna, di vita, a un set di “Don Matteo”. La polemica colta e ben scritta è sempre corroborante e gli spunti multidisciplinari del libro sono quasi tutti convincenti. Certamente lo è la messa in guardia contro l’estetizzazione e la standardizzazione (tutto bello, tutto buono, tutto tipico, tutto storico, tutto eccellente), di un mondo che è sempre stato affascinante anche perché vario, sghembo, poco accessibile e palatabile, come la vita. Una prospettiva anche un tantino snob, ma che mi sento di sposare.
Un elemento unisce la SNAI e i suoi sostenitori e le politiche successive, che hanno preferito impacchettare la complessità magmatica delle aree interne all’interno dei borghi turriti, degli alberghi diffusi (spesso più diffusi dei turisti) e delle eccellenze autoproclamate: una troppo scarsa attenzione al tema dello sviluppo e soprattutto del lavoro.
Certamente, le comunità lontane dai servizi essenziali hanno bisogno di servizi che siano all’altezza e abbastanza sostenibili dal rendere il confronto con i centri urbani meno impari, ma il primo driver per muovere le persone e le famiglie dentro o fuori da una comunità è il lavoro. Aprite, riaprite, insediate una fabbrica a 30 km da un’area interna e vedrete che le persone si fermano, eccome si fermano, e se si fermano si riattivano anche i servizi e il posto prende di nuovo vita, ci sono molti esempi. D’altra parte, una comunità fatta solo di cura, autosostentamento e mostra di sé, come si ricava anche da molte delle progettualità del Bando Borghi, è un’astrazione fragile e poco interessante.
L’altro tema, collegato, la cui assenza un po’ sorprende data la collocazione culturale e politica gauchista degli autori dei saggi e delle politiche a cui si richiamano o che criticano, è l’immigrazione finalmente come parte della soluzione.
In un paese sempre più vecchio e spopolato, e soprattutto in comunità che offrono standard di vita e di lavoro pre-borghesi (socialità assai ridotta, lavoro agro forestale), è paradossale che non si rifletta, e soprattutto si agisca, su quanto quello che noi consideriamo premoderno e dai cui fuggiamo potrebbe essere appetibile per chi proviene da realtà sempre meno sostenibili. Realtà che nei prossimi anni espelleranno ancora più giovani (quelli che noi non produciamo più) in fuga da guerre, carestie, siccità e che potrebbero trovare nell’agricoltura e nella manutenzione del territorio delle nostre aree interne un’opportunità straordinaria di promozione. E se non piacerà a chi ancora alza le barricate pazienza, molto presto il bisogno di braccia sarà molto più forte delle ansie di purezza.
Parlare di manifattura, lavoro e immigrazione non significa annacquare la specificità dei borghi/paesi/aree interne all’interno di spoetizzanti processi economici, ma riconoscere a questi luoghi la possibilità di tornare protagonisti di un’idea diversa, radicale, ma possibile di sviluppo. Uno sviluppo in cui la cura del territorio anche interno diventa un’assicurazione contro le catastrofi climatiche, e dunque oggetto di politiche e di investimenti pubblici; in cui le persone possono vivere e lavorare in luoghi diversi a seconda delle fasi della vita; in cui compreremo il Bitto fatto da un malgaro ghanese.
Per uscire vivi da tempi interessanti, a volte tocca immaginare cose ancora più interessanti di loro.