Prendere sul serio le trasformazioni, digitale ed ecologica, poste alla base della ripartenza dell’Europa nel dopo pandemia (e delle risorse del Recovery Plan – PNRR) richiede profonde e urgenti trasformazioni non solo delle nostre competenze, ma della nostra forma mentis.
Non basterà, anche se sarebbe già moltissimo, sapere di digitale e di sostenibilità, bisognerà “pensare” digitale e sostenibile, per agire digitale e sostenibile, a partire dalle imprese. Molto faranno le generazioni “native”, ma non possiamo aspettare che, nel Paese più vecchio d’Europa, i giovani facciano tutto, dovendosi anche in primo luogo districare tra anziani che non vogliono togliere il disturbo. Tocca arrivarci prima, anche come gesto di responsabilità verso le generazioni future, che meritano di ereditare un Paese e un’economia più solide e orientate al futuro.
Cambiare la forma mentis richiama il tema delle competenze, non come travaso di concetti ma, soprattutto negli adulti e in chi è già in formazione, come acquisizione di chiavi di lettura per orientarsi in un’epoca di incertezza. Un’epoca nella quale si chiede a un imprenditore, un lavoratore, un amministratore, ma anche un semplice cittadino, di comprendere velocemente cambiamenti anche estremi, adattarvisi e tirarvi fuori il meglio per non essere solo consumatori e masse da gestire.
Bisogna tornare a studiare, che si cerchi o si voglia mantenere il proprio lavoro, che si debba approdare in nuovi mercati o consolidare gli esistenti, che si abbia bisogno soluzioni per gestire meglio la propria comunità. Bisogna però farlo in scuole nuove, che abbiano compreso la sfida del pensare digitale e sostenibile e delle competenze come fattore di inclusione per tutti.
Il PNRR dedica giustamente molta attenzione all’educazione come pilastro della ripresa e della modernizzazione del Paese e lo fa correttamente nella prospettiva pubblica. Vengono potenziate le infrastrutture educative, ri-finanziata finalmente l’edilizia scolastica, valorizzata la formazione più vicina al mondo del lavoro, con un ruolo di primo piano finalmente riconosciuto agli ITS.
Si tratta delle giuste e doverose premesse per un lavoro che deve però andare oltre e ingaggiare maggiormente il mondo dell’impresa, del lavoro e delle istituzioni, perché la sfida è ancora più ambiziosa: trasformare il nostro sistema produttivo e istituzionale in una learning community a tutti i livelli, ossia in organizzazioni che hanno appreso la lezione dell’era dell’incertezza e sanno di dover essere sempre pronti a evolvere e cambiare, imparando e innovando quello che fanno. Comunità che hanno attenzione verso il cambiamento dei rispettivi mondi, apertura verso la tecnologia, contezza delle sfide sociali e ambientali, ma anche radici per essere in grado di crescere e mutare senza negare la propria identità e metodo per gestire il cambiamento.
Nel mio mondo, che è quello della piccola impresa e dell’impresa artigiana, competenze e metodo sono la gran parte di quello che servirebbe e di quello che manca per rispondere alla grande domanda: “adesso che sta cambiando tutto così velocemente, che facciamo?”. Non si pensa tanto a “cosa potrei fare se avessi le risorse?”, ma “da che parte vado?”.
Di fronte a queste domande non si può semplicemente aggiungere tecnologia e portatori di competenze come se fossero l’acqua nelle ricette, quasi sempre non serve se non all’interno di percorsi per trasformare la forma mentis di chi si fa questa domanda, per farli pensare artigiano, ma anche digitale e sostenibile. Così fanno coloro i quali, a tutti i livelli, stanno capendo e interpretando al meglio le sfide.
Il cambiamento sta mettendo in forte discussione anche alcune dinamiche consolidate dell’apprendimento, cambiamenti cruciali, che provo ad argomentare con tre esempi.
Bisogna superare la rigida separazione a canne d’organo tra discipline, o almeno fare convivere tecnicismo e attenzione al contesto. In uno degli interessantissimi seminari online sulla “Geografia dell’Istruzione Superiore” organizzati dal Centre for Entrepreneurship, SMEs, Regions & Cities dell’OCSE, una sezione illuminata dell’Organizzazione che si occupa di sviluppo locale e PMI, ho avuto il piacere di ascoltare Gerald Bast, Rettore dell’Università di Arti applicate di Vienna. Bast è un accademico e un rettore di lungo corso, ma anche un pensatore non banale sul rapporto fra tecnologia, cultura, società e politica. Il suo racconto dell’approccio interdisciplinare radicale del suo ateneo, che mette insieme sapere scientifico e tecnologico “alto”, e attenzione all’arte, alla società e alla politica è affascinante e molto stimolante. Da Vienna escono progettisti di nuovi musei, designer di nuovi prodotti, inventori di nuovi servizi che danno del tu alla tecnologia, ma ne comprendono le implicazioni, gli utilizzi e i limiti.
Bisogna superare, davvero, la divisione tra fare e imparare. La crisi occupazione del Covid è la prima senza flessione della domanda di competenze, in particolare legate alle tecnologie. Ma il modello dell’impresa e dell’accademia onniscienti, che conoscono ciò che serve in termini di competenze e su questa base aggiustano i percorsi formativi non funziona più. Il ritmo del cambiamento, tecnologico e di mercato, è troppo accelerato e la direzione troppo erratica. Bisogna riconsiderare i confini tra apprendimento e applicazione e fra formazione e consulenza. Vale un po’ dappertutto, ma soprattutto in contesti poco formalizzati, dove la domanda “cosa faccio adesso?” è particolarmente forte, così come il bisogno di pensiero digitale. La fascinazione per gli ITS (che personalmente ritengo assai più strategici per il nostro sistema produttivo delle lauree professionalizzanti e certamente dei dottorati d’impresa) nasce non tanto dal loro formare prodotti semi-finiti pronti per la messa a frutto nel lavoro, ma dal lavorare su ragazzi che sono già potenziali elementi di trasformazione dell’impresa, perché portatori di quel pensiero digitale che manca. Il progetto “Speed- Up: accelerazione per le imprese artigiane“, promosso dall’Istituto veneto per il Lavoro e Confartigianato Veneto in collaborazione con l’Università Ca’ Foscari di Venezia, ha messo insieme 12 imprese artigiane di diversi settori e altrettanti gruppi di studenti degli ITS veneti con lo scopo di produrre prototipi di innovazione 4.0. A detta delle imprese stesse si è trattato di una sperimentazione di grande successo, proprio perché con metodo e competenze ha messo insieme chi pensa artigiano e chi pensa digitale, orientandoli verso un medesimo obiettivo e facendo imparare qualcosa a tutti e due, ascoltandosi, sperimentando e facendo. Il futuro dell’innovazione della micro e piccola impresa passa soprattutto da incontri di questo tipo.
Di fronte alla magnitudine dei cambiamenti, bisogna avere il coraggio e la creatività di andare oltre i curricula tradizionali. Xavier Niel è un grande imprenditore francese della tecnologia e della comunicazione, che ha meritoriamente deciso di investire parte delle sue ingentissime fortune nello sviluppo di nuove imprese e più di recente nel lancio di nuovi, rivoluzionari progetti educativi. Dapprima Niel ha lanciato le Ècole 42, un network ormai mondiale di scuole per programmatori, completamente gratuite, senza bisogno di alcun attestato precedente e senza professori, nelle quali si entra alla fine di una selezione durissima, “La Piscine”, solo sulla base del merito e dell’attitudine. Ancora più interessanti è però l’ultimo annuncio di questo vulcanico imprenditore, l’apertura a settembre di Hectar, una scuola sempre libera e gratuita di agricoltura, per Niel il grande tema del futuro poiché da come produciamo quello che mangiamo passano molti dei nodi ambientali, ma anche economici e politici di questo secolo.
Le imprese di Niel e le considerazioni sul superamento delle barriere disciplinari e tra chi fa, insegna e impara devono a mio avviso indurre una riflessione su come riorganizzare non solo i modelli di apprendimento, ma anche i modelli di innovazione, soprattutto per quei settori/distretti che hanno necessità di ripensarsi profondamente alla luce delle trasformazioni di tutto, come la Moda, il Design, l’agroalimentare e praticamente tutto il resto del made in Italy.
Si potrebbe pensare, in mezzo a tanti mega investimenti in centri per il trasferimento tecnologico di dubbia prospettiva, ad accademie/incubatori, aperti e gratuiti, che insegnino i mestieri del manifatturiero declinati secondo il pensiero digitale, ma anche siano anche il punto di approdo per le imprese che vogliono rispondere al”cosa faccio adesso?” per trovare idee, capire in che direzione va il loro mondo, trovare ragazzi svegli da assumere, imparare qualcosa, sperimentare. Luoghi fisici, possibilmente pubblico-privati e assolutamente inclusivi per pensare, rappresentare, dare forma ai distretti del futuro, dalle scarpe di Montegranaro ai rubinetti di Verbania passando per mille territori e sistemi di imprese in cerca di prospettive.
Diventare comunità che apprendono è l’unica garanzia per farsi trovare meno impreparati alle prossime svolte dell’età dell’incertezza. Non è poco di questi tempi.