Mentre scrivo tutto quello che poteva andare male sembra lo stia andando con assoluta velocità e devozione.
La pandemia avanza in tutto il mondo e l’Italia sembra ancora essere il luogo di un suo accanimento particolare in termini di viralità e di decessi. L’economia, con la chiusura forzata di tutte le attività non essenziali, è entrata in un nuovo tunnel assolutamente inesplorato per effetti e tempistiche. Anche la democrazia (ma ci si pensa sempre molto “dopo”) in questo momento non si sente affatto bene, come dimostrano le evidenti torsioni in termini di rispetto della divisione dei poteri e tutela delle libertà civili ed economiche.
C’è, si dice e si ricorda a ogni momento, un disastro senza precedenti là fuori, centinaia di morti al giorno, persone che rischiano quotidianamente a vita per salvarla agli altri o, penso ai cassieri dei supermercati tra i tanti, per permettere al motore del paese di rimanere acceso, seppure al minimo. Per questo oggi non c’è alternativa a #iorestoacasa, allineati e coperti, a seguire le raccomandazioni/inviti/ordini del Governo, delle Regioni, dei Comuni, a pascersi quotidianamente delle spiegazioni e dei pareri di illustri virologi, a praticare e propagandare nuovi comportamenti.
Usa così tra persone mature e responsabili, se c’è da fare qualcosa che si comprende essere per il bene di tutti la si fa, senza mettersi di traverso con il ditino alzato alla folla che scappa perché “non mi hanno detto per favore”.
Usa così anche di fronte, siamo borghesi educati ma non tonti, alle tante cose che non vanno in questa guerra improvvisa e senza nemici: la continua rincorsa di tutti, ministri, presidenti di regione, sindaci, scienziati ad affermare certezze assolute che appena sbriciolate vengono sostituite da nuove certezze assolute; una comunicazione istituzionale che per modi, tempi, simboli ha tutt’altro che rincuorato chi aveva bisogno di leader autorevoli, mostrando tutte le crepe della classe dirigente nel momento peggiore; una tendenza fin troppo generalizzata e rapida nell’opinione pubblica a farsi non solo ligi esecutori degli ordini, ma zelanti lanciatori di sassi in costante ricerca del nemico.
Dietro, sopra, attorno a tutto questo aleggia lo spettro peggiore, una gelata dell’economia globale senza precedenti dal secondo dopoguerra e per la quale l’ILO ha già pronosticato la cifra mostruosa di 25 milioni di disoccupati. Una gelata che riguarderà tutti, ma che è facile prevedere avrà effetti diversi a seconda di quanto cagionevole era la salute del malato prima, e la nostra lo era tantissimo.
L’attenzione generale puntata sui bollettini medici dell’epidemia, la chiusura di fatto del Parlamento e la pioggia di misure nazionali ed europee di sostegno immediato ad alcune categorie economiche hanno temporaneamente distolto l’attenzione su un dato senza precedenti dopo il 1945: il nostro sistema produttivo si è per la grandissima parte fermato, nel senso che non è più attivo. Sono fermi quasi tutti i negozi, è completamente fermo il turismo, la manifattura o è ferma o è stata riconvertita a produzioni di emergenza, appunto come in guerra.
Siamo allineati, coperti e preoccupati per la nostra salute e quella dei nostri cari, ma non possiamo pensare che questa ibernazione riporterà tutti in vita sani e salvi in un futuro quando sarà stata trovata la cura, è pensiero magico o la trama di “Passengers”. Alcuni, quanti dipenderà anche dalla durata dell’ibernazione, non si risveglieranno, altri ci proveranno ma non ce la faranno, molti dovranno mutare profondamente per sopravvivere “dopo”.
L’ansia riguarda imprese che, come la stragrande maggioranza delle imprese italiane, non sono flussi senza volto di bit e di denaro, ma storie, facce, famiglie, culture, posti di lavoro, territori. È un intero, enorme ecosistema fatto di imprese (moltissime micro e piccole), di imprenditorialità, di follia positiva, di energia anche incasinata, di libertà che oggi rischia di essere falcidiato dalla gelata.
È la nostra economia e il nostro futuro.
L’ipotesi, che pure si sta facendo velocemente strada, che il soffio vitale perduto dell’economia possa interamente esserle restituito dalla mano pubblica è a mio avviso forse necessario nel brevissimo, ma sbagliata e pericolosa nel medio lungo periodo.
Sul breve, l’allentamento delle regole di buona creanza finanziaria europea, gli aiuti del Governo e gli helycopter money sono l’unica possibilità di immettere liquidità in un sistema prosciugato, sul medio lungo periodo però lo scenario cambia radicalmente e quello che fa bene rischia di diventare mortale per l’ecosistema.
Uno scenario “cinese” di forte dipendenza del sistema economico e sociale dallo Stato, sempre più centralizzato e concentrato sul potere esecutivo, che mantiene un fortissimo potere di indirizzo sull’economia e sulla società in ragione del fatto che regge i cordoni della borsa, per rimpinguare la quale accrescerà la pressione fiscale e il red tape sorretto da un consenso generalizzato sarebbe, in tutto o in parte, un incubo orwelliano.
È ansia eccessiva da confinamento e da bombardamento mediatico di cattive notizie? In parte forse sì, anche se ci sono dei segnali che inquietano, soprattutto laddove non si ha la certezza di quando un certo spirito del tempo avrà a finire. Mi riferisco di nuovo alla sospensione delle libertà civili ed economiche per mano dell’Esecutivo, aggravata da metodi oracolari di comunicazione e soprattutto dal ventilato ricorso a tecnologie digitali di tracciamento dei cittadini.
Anche due autorevoli voci come lo storico israeliano Yuval Noah Harari e il quotidiano dei vescovi italiani Avvenire, non certo discepoli del Foucault di “Sorvegliare e punire”, hanno sollevato il tema del pericolo a medio termine per la democrazia derivante dallo sdoganamento di tecnologie di tracking delle persone o della presenza dell’esercito nelle strade.
Certamente l’emergenza rientrerà, speriamo tutti prestissimo e bene, ma come diceva Giuseppe Prezzolini “In Italia nulla è stabile fuorché il provvisorio”, mentre in questo momento è di vitale importanza sapere che alla fine del tunnel si potrà e dovrà cambiare verso.
Oggi stiamo a casa e marciamo uniti, domani torniamo a rivendicare subito libertà di spostamento, privacy, libertà di impresa, lavoro buono, accountability dei governi, sussidiarietà, diminuzione e non aumento della burocrazia, sostenibilità della pressione fiscale. Oltre all’incertezza e alla recessione, il nemico da combattere sarà quello che nella fisica è il principio d’inerzia, per il quale ogni corpo persevera nel suo stato di quiete o di moto uniforme e rettilineo a meno che non sia costretto dall’intervento di una forza a mutare quello stato. Personalmente sono atterrito da un’inerzia fatta di passività, incertezza, dipendenza generalizzata nel Paese, dall’affievolimento del suo soffio vitale. La ricostruzione, che dovrà cominciare subito, non potrà che fondarsi su premesse e parole chiave completamente diverse da queste.
Si uscirà dall’inerzia dell’economia e della società di guerra se e solo se l’opinione pubblica e il mondo economico e del lavoro saranno in grado di rivendicare e riempire di contenuti il passaggio al “dopo”, minimizzando l’inerzia.
“Dopo” che sarà, come scrivevo, certamente molto diverso non solo da “ora” ma anche da “prima”, tanto più profondamente diverso quanto più durerà “ora”, scavando un fossato sempre meno colmabile con quello che eravamo e avevamo fino al 20 febbraio.
Per rivendicare il “dopo” bisogna però averlo in mente, almeno a grandi linee. Ci vuole un piano, o meglio tanti piani, individuali e collettivi.
Chi di noi, ed è la maggioranza, non è in prima fila nel salvare vite in ospedale o governare un territorio o assicurare il funzionamento dei pezzi rimanenti dell’economia e della società ha il tempo e il dovere di progettare il suo “dopo”, individuale e collettivo.
È il momento di interrogarsi, informarsi, pensare a come cambierà il proprio lavoro, la propria impresa, il modo in cui ci si sposta, si guarda il mondo, si consuma, si sta insieme. Dove questo compito travalica per complessità del quadro o mezzi a disposizione le possibilità individuali, è il momento di condividere il piano con chi è affine per cultura e interessi. Chi ha il difficilissimo compito di guidare organizzazioni collettive in questo momento, ha fra le tante incombenze anche quella di potenziare la capacità di queste organizzazioni di immaginare e progettare per i nuovi scenari, anche se l’orizzonte è ancora lontano e avvolto dalla nebbia.
Mai come adesso infatti se non si progetta si rischia di essere progettati, dall’inerzia dell’economia di guerra, dall’ansia per il futuro, da coloro i quali già progettano, legittimamente, di comprare a prezzi di saldo pezzi della nostra economia.
Se tutto è destinato a cambiare, rapporti sociali, utilizzo delle tecnologie, organizzazione delle imprese e del lavoro, governo dei territori tutto può essere rimessi in discussione, riprogettato per essere migliorato o quantomeno per limitare i danni, facendoci uscire dalla passività soldatesca che dovremo abbandonare appena potremo uscire di casa. Lo dobbiamo a noi stessi, ai nostri figli, al Paese.
Nel buio di questi giorni, una delle poche buone notizie illumina anche una possibile strada per il futuro. Un gruppo di maker italiani ha raccolto la richiesta di aiuto che veniva dall’Ospedale di Chiari e, grazie all’utilizzo di tecnologie di modellazione e stampa 3D, ha realizzato una valvola per i respiratori meccanici che non si trovava sul mercato, tutto a costi e tempi straordinariamente contenuti. Non solo, una volta testata positivamente la valvola, il gruppo ha hackerato una maschera da snorkeling di Decathlon (che ha partecipato con altri al progetto) per realizzare un respiratore. Grazie all’intelligenza collettiva si è data soluzione a un problema enorme. Una piccola storia in cui c’è tutto: solidarietà, tecnologia, innovazione, manifattura, creatività, libertà, comunità, territorio.
Sono le parole chiave che credo non possono mancare per un progetto che ci faccia ripartire una volta fuori dal tunnel, magari per qualche verso meglio di prima, per davvero.
Ph: Pietro Lucerni