Cinque cose che ho imparato da mio figlio

La scorsa settimana, mio figlio Tommaso ha sostenuto l’esame orale della maturità ed ha finito – abbiamo finito – la fase della scuola. Quindici anni in cui è diventato adulto e noi genitori siamo invecchiati accompagnandolo in una trasformazione così rapida e radicale da essere senza equivalenti nelle successive fasi della vita.

Per quanto riguarda l’osservazione dei fenomeni sociali ed economici, che è il focus di questo blog, partecipare a crescere un figlio apre una finestra su un mondo, quello dei ragazzi vicini e delle loro famiglie, che regala uno spaccato di grande interesse su un universo di cui si parla molto, ma troppo spesso a debita distanza e con la prospettiva distorta della comunicazione giornalistica.

Non mi unisco, buon ultimo e malamente qualificato, alla schiera degli “esperti di giovani”, che sono già troppi, ma poiché lo scambio di esperienze e storie è stato la bussola principale per orientarsi nelle acque procellose e scure della genitorialità, penso sia utile condividere alcune considerazioni su cinque cose che ho capito di quei circuiti delicatissimi tra crescita, scuola, cultura famigliare, economia e lavoro, seguendo mio figlio fino al traguardo, provvisorio ma importante, della maturità.

Le indico per punti, sperando siano in qualche modo utili ai miei venticinque lettori, anche per consolidare opinioni magari opposte. Sono, ovviamente, considerazioni che nascono da una condizione borghese e metropolitana, fatta di licei a cui segue l’università, che è la mia e quella di chi mi circonda, un punto di vista.

  1. Famiglia/e: nell’era dei legami liquidi, la famiglia è ancora al centro del processo di crescita e di maturazione di un figlio, lo è ancora di più di quanto non fosse qualche decennio fa, e comunque decisamente troppo. Questo significa che l’imprinting familiare è ancora fortissimo e che gran parte delle esperienze che segnano un ragazzo/a in crescita (viaggi, cose viste, libri letti, persone conosciute) avvengono grazie alla famiglia o al contesto che attorno ad essa si crea, nel suo cono di luce. Le istituzioni che nel tempo sono state create per omogeneizzare i ragazzi, sottraendoli alla tirannia del luogo e della classe in cui si era nati e cresciuti, la leva, la scuola, la fabbrica/ufficio, o sono state abolite (e va bene così), o sono diventate debolissime, o ancora si sono polverizzate. Dunque rimane la famiglia, con le connessioni e i viaggi in America, o con i divieti e le estati al paese. È evidente, e ampiamente stato detto, che questo rafforza le diseguaglianze, ed è perfettamente vero, ma nella mia esperienza ho capito che fa anche altro: lascia le famiglie, istituzione peraltro in decennale crisi, sole ad affrontare le situazioni quando le cose vanno male. Io mi ritengo molto fortunato con mio figlio, anche perché con sua madre abbiamo messo un sacco di impegno nel crescerlo, stimolarlo, educarlo, ma la fortuna ha appunto un ruolo molto grande. Le famiglie in cui un figlio si perde, a scuola, nella vita, in un buco nero, sono tante e quasi sempre per nulla mancanti di impegno, ma di fortuna. Soprattutto, hanno pochissimi strumenti che non siano le reti corte di altre famiglie o il mercato, sono magari benestanti, ma solissime. Questa dimensione, che produce ogni tanto articoli tanto preoccupati quanto superficiali sui “mali dei giovani” o aggiunge numeri ai NEET, nasce anche dalla perdita di vista totale del concetto di crescita come autonomia, dunque diritto a provare e a sbagliare, ma anche dovere di cavarsela un po’ da soli, anche rompendo con tradizioni e aspettative famigliari. Sarebbe bello, dunque, che parlando di ragazzi/e si tenesse in maggior conto proprio la loro crescita come processo di acquisizione di autonomia, anche materiale. Altrove si fa, qui partivamo da più indietro, e siamo forse ancora arretrati.
  2. Scuola. Nei tredici anni dalla prima elementare alla maturità, quindici con l’asilo, non ci siamo fatti mancare nulla nel provare scuole diverse: dalla scuola elementare inglese (la migliore), alla scuola media cattolica del centro di Milano (la peggiore), a due licei classici sempre milanesi. L’idea, forse non originale, che mi sono fatto in questo peregrinare è che la scuola è un’istituzione vecchia e debolissima, tanto più debole quanto si rapporta con i figli iperstimolati della borghesia urbana (sul resto non so dire). Soprattutto al liceo, uno dei quali era quello che ho frequentato anch’io tanti anni prima, la sensazione era chiaramente che quasi nulla fosse cambiato dai miei tempi, eccetto l’introduzioni della pratica voyeuristica del registro elettronico. Il digitale ha dato la mazzata finale al vecchio progetto culturale della scuola, che doveva di nuovo essere un’agenzia per formare nei ragazzi una cultura omogeneizzata e comune, alternativa e supplementare a quella famigliare, progetto che oggi sembra un wishful thinking anche tenero, certo non una missione realistica. La cosa che da genitore mi ha colpito di più della scuola è stata la ricorrente tendenza a imporre le proprie ragioni e il proprio progetto culturale per affermazione autoritaria, senza realmente comprendere l’entità dei cambiamenti. Penso al fenomeno del quarto anno di scuola all’estero, ormai un must per sempre più liceali e un mercato fiorentissimo di servizi correlati, ma sempre oggetto di trattative da suk tra genitori, ragazzi e scuole. Un must da anni dei figli della borghesia, ma che continua ad essere condotto informalmente, senza uno straccio di parere formalizzato sull’opportunità di fare l’esperienza, di programma di mantenimento delle competenze durante l’anno e di reinserimento in classe che non sia soggetto all’offesa della singola professoressa per aver preferito per un anno un docente canadese a lei. Penso anche alla guerra del Ministro Valditara contro i mulini a vento dei cellulari in classe: non ha torto dal punto di vista dell’istituzione così com’è, ma difende una Fortezza Bastiani di cultura cartacea e libresca, che altrettanto così com’è si sta spegnendo. Gli articoli scritti da miei coetanei e letti da miei coetanei su come l’intelligenza artificiale ci renderà tutti cretini vanno bene per ramazzare indignazione, ma non fanno nemmeno il solletico al problema, che è quello del progressivo allontanamento della scuola dall’esperienza reale dei ragazzi, un solco riempito da pochi illuminati e da tanta autorità, peraltro sempre meno riconosciuta. Anche le litanie sul magico potere del liceo classico vanno bene per gli attempati lettori del Corriere della Sera: così com’è è uno strumento di riproduzione della borghesia e al massimo una palestra di disciplina per i ragazzi, chiamati a studiare il greco come esercizio di volontà, un po’ poco. Riuscisse mai il liceo classico a dare gli strumenti perché il figlio di immigrati cinesi o pachistani diventi sindaco o professore universitario sarebbe un altro paio di maniche, ma la prospettiva mi pare lontana.
  3. Formazione. La scuola è un pezzo di un mercato della formazione che negli ultimi anni è cresciuto e si è sin troppo complicato, a mio parere facendo più contenti gli imprenditori che i clienti. Posto che la scuola, da quello che ho esperito, dedica pochissimi sforzi all’orientamento, ragazzi non ipermotivati di loro e troppo spesso sballottati dalle aspettative delle famiglie o da suggestioni senza costrutto finiscono le superiori avendo davanti un bosco fitto, che per ampi tratti diventa una vera e propria jungla, fatta di strade senza uscite e mille predatori. La formazione universitaria, nella modalità marketing spinto del 3+2, è un fiorire di offerte iper specifiche e che non si sa dove portino, chiaramente costruite come sono più sulle esigenze dell’offerta che sulle prospettive della domanda. Gli ITS, che ancora pochissimi conoscono e ancor meno considerano, sono rimasti come quei calciatori che fanno faville da giovani e, strapagati, non sbocciano nei grandi club, un’istituzione piena di potenzialità ma che viaggia ben al di sotto di esse. Fuori da questo mondo, istituzionalizzato, hic sunt leones: il volgarissimo video della Scuola Holden è solo la punta dell’iceberg di un bazaar, ridicolmente costoso, dello sfruttamento dello smarrimento dei ragazzi e del senso di colpa dei genitori, una vera vergogna.
  4. Lavoro. La scuola d’élite, se tali possono essere considerati i licei classici di Milano e Roma, mantiene un sovrano disinteresse, se non un aperto di sprezzo, nei confronti del lavoro. Il divorzio tra scuola non professionale e lavoro, per la gran parte colpa della Sinistra più ideologica, che ha sempre ritenuto che l’alternanza scuola lavoro fosse una pratica schiavile, ha fatto sì che dei 19enni possano terminare gli studi non sapendo nulla, dicasi nulla, del lavoro, se non ancora una volta, attraverso l’esperienza famigliare (o le castronerie di TikTok). Ne risultano idee raffazzonate, ideologiche o ingenue, oppure vecchissime, se si assume per buono l’orizzonte professionale di chi ha trent’anni almeno più di loro, altre ere geologiche. Questa ignoranza del lavoro, rafforzata spesso dall’omogeneità sociale che il contesto famigliare rafforza, rende i ragazzi totalmente impreparati al dopo e dunque quasi sempre vittime dei venditori di pozioni magiche, nella forma appunto di fantomatici corsi o di stage per guadagnarsi altri stage. Tommaso in questi anni ha lavorato d’estate, per scelta e non per punizione, e ha visto un pezzo di mondo che altrimenti non avrebbe conosciuto, ha riconsiderato la sua condizione e ha sperimentato, amandola, l’autonomia. Anche per questo motivo, oggi non è solo formalmente maturo, ma si è (quasi completamente) staccato dalla teglia familiare, come i cibi che quando sono cotti si sollevano da soli, che è l’immagine forse grossier ma più efficace che mi viene in mente. Chi afferma di tenere al lavoro, e ai lavoratori, dovrebbe essere in prima linea per farne conoscere la realtà, complessa, a chi studia, o quantomeno dovrebbe evitare questa assurda messa al bando del tema, peraltro suicida nella seconda economia manifatturiera d’Europa.
  5. Giovani in un paese vecchio. Tommaso, come legioni di suoi coetanei (circa 8mila secondo le statistiche, seconda nazionalità dopo i tedeschi) ha scelto di studiare in Olanda. Mi mancherà da morire come genitore e mi dispiace altrettanto da morire come italiano, ma non si fanno esperimenti sui propri figli e fa bene ad andarsene. L’Italia non è un paese per vecchi, che non sono trattati meglio dei giovani, è un paese vecchio, che ha in agenda soprattutto il tirare a campare. Con una materia calda come i ragazzi, in continuo movimento, vivere d’inerzia è più difficile, dunque si serrano i ranghi della rendita e del si salvi chi può, da cui appunto il ritorno prepotente della famiglia come comunità di destino. Personalmente, ho sempre trovato un malvezzo fastidioso quello della borghesia che con un gin tonic in mano predicava di andarsene dall’Italia, e mi sforzo di non considerare questa piccola, familiare fuga di cervelli come una fuga, anche se un po’, magari temporaneamente, lo è. Quello che spero, è che guardandola da fuori un po’ manchi, a lui o agli altri, l’Italia, e che se torneranno lo facciano con la voglia di riprendersi il Paese, non di non disturbare per mettersi in scia di chi lo conduce.

Questa esperienza di genitore di “maturo”, faticosa ma straordinaria, mi ha dato tantissimo e mi lascia con la sensazione chiara che abbiamo, come famiglie, ragazzi, persone, Paese, bisogno di curarci di più, di trattarci meglio, di parlare senza paura e di rivolgere la nostra energia a quello che non funziona, sgominando il nemico del “non c’è niente da fare”.

C’è moltissimo da fare invece, e i nostri figli sono il punto di partenza migliore.