Il Museo del Ciclismo del Ghisallo è una bellezza che vale assolutamente la visita.
È un luogo delle meraviglie per tutti gli appassionati della bicicletta, che vengono a visitarlo da ogni parte del mondo, per i cimeli della storia del ciclismo che ci sono dentro e per il piacere di arrivarci, facendo un gran premio della montagna in un posto incantato tra i rami del lago di Como.
Oltre che un museo dello sport, è un museo industriale. Le sue straordinarie biciclette, che ripercorrono la storia del ciclismo e le maglie leggendarie che raccontano i campioni sono quasi tutte prodotte in Italia, a testimonianza di una passione che è stata anche un pezzo della nostro cultura produttiva. È stata e, purtroppo, non lo è per molti versi più.
Molti dei marchi esposti, che hanno fatto la storia del ciclismo mondiale e reso l’Italia una delle sue capitali, pur essendo comunicati e percepiti come italiani, non lo sono più.
Non lo sono, e sarebbe il meno, per il carattere internazionale della proprietà, quasi sempre passata da imprese famigliari a fondi di investimento.
Non lo sono soprattutto perché ormai da decenni la produzione della gran parte dei telai e di fatto di tutta la componentistica ha lasciato le nostre fabbriche in direzione del Far East (Cina, Taiwan, Vietnam) e dell’Europa Orientale (Romania e Bulgaria su tutti).
Di cosa la migrazione di capacità produttiva comportasse realmente ci siamo accorti sin dall’inizio della pandemia, quando è risultato progressivamente chiaro come l’interruzione delle catene globali di fornitura poneva l’Occidente in una situazione inimmaginabile di difficoltà ad approvvigionarsi di strumenti sanitari anche straordinariamente semplici, come camici e mascherine. Il gap in questo caso è stato colmato, non senza problemi ma abbastanza rapidamente, dacché si trattava di oggetti semplici e di linee di produzione facilmente ricreabili.
Nel caso delle biciclette, la compresenza di diversi fattori (aumento globale della domanda, in Italia sostenuta anche dagli incentivi, blocchi congiunturali e strutturali delle catene produttive e logistiche, magazzini ridotti ideologicamente all’osso, aumento delle materie prime, con i prezzi dei metalli che secondo il Fondo Monetario Internazionale, salgono a maggio 2021 dell’88,8% su base annua, con una spinta del 66%, per l’alluminio) ha determinato una “tempesta perfetta”: è difficilissimo trovare biciclette sul mercato, soprattutto nella fascia media, e, l’ho sperimentato di persona, ancora più difficile trovare componenti, cambi, freni, selle.
Si tratta di oggetti all’apparenza semplici, che raccontano però del grado estremo di globalizzazione delle catene del valore della manifattura: secondo l’ultimo rapporto “Artibici” di Confartigianato, i primi due esportatori mondiali per i pneumatici per biciclette sono Germania e Indonesia, per le camere d’aria sono Vietnam e India, per le luci sono Germania e Francia, per le biciclette complete sono Paesi Bassi e Germania, per i telai sono Vietnam e Cina (seguite da Usa e Italia), per i cerchioni sono Italia e Francia, per cambi, mozzi e i freni e pedali sono Singapore e Giappone mentre per le selle sono Italia e Vietnam. Un giro del mondo, che quest’anno si è bloccato come la nave Ever Given nel canale di Suez.
I backlog di consegna dei principali marchi sono lunghissimi, oltre i 400 giorni per prodotti che normalmente sarebbero stati disponibili a scaffale. I produttori di biciclette, che in realtà quasi sempre le progettano e al massimo producono il telaio, assemblando il prodotto finito, sono bloccati perché non ricevono i componenti. I produttori di componenti sono bloccati perché mancano parti anche infinitesimali di congegni molto complessi (fino a 140 pezzi per un cambio di alto livello).
Nell’assoluta incertezza sul futuro che avvolge le umane cose e gli eventi economici dalla pandemia, non si sa come interpretare questo blocco delle forniture, e soprattutto come reagire in modo appropriato dal punto di vista del business. Il quale va assolutamente bene, ad aprile 2021 la produzione cumulata degli ultimi 12 mesi è superiore del 3% allo stesso dato rilevato ad aprile 2019, mentre a marzo 2021 le esportazioni di biciclette, parti ed accessori cumulate negli ultimi 12 mesi sono superiori del 14,2% allo stesso dato rilevato a marzo 2020 e del 17% rispetto a marzo 2019, ma potrebbe andare molto meglio senza queste strettoie, di cui si comprendono le cause ma non si vedono le soluzioni. Meglio, esistono interpretazione assolutamente divergenti dello stesso fenomeno.
Secondo alcuni osservatori, i profondi cambiamenti in atto nella mobilità e nell’invecchiamento attivo potrebbero sospingere il boom della domanda molto a lungo, addirittura al 2030. In questo caso sarebbero necessari investimenti produttivi per rispondere alle nuove condizioni.
Secondo altri, la crisi è un gioco di specchi tra domanda (cresciuta, ma non così tanto) e intermediari (che hanno aumentato le richieste ai produttori per sostenere un po’ istericamente quella che percepivano essere un boom di domanda). Una bolla, dunque, da fare passare con nervi saldi e senza scomporsi troppo.
Si tratta in entrambi i casi di educated guess, ipotesi plausibili che scontano l’irruzione dell’improbabile nel discorso economico e una precarietà di scenari come dato strutturale del mercato, di ogni mercato, ma che devono essere tenute in seria osservazione. Perché, ed è questo il motivo per cui ne scrivo a parte una passione personale per il mezzo, quello che sta succedendo alle biciclette racconta molto degli errori, delle mancanze e ancora delle prospettive del nostro sistema produttivo di fronte al new normal. Poiché siamo anche economicamente ciò che produciamo, guardare alle biciclette come memento degli errori da non fare e delle vie da percorrere è un modo fecondo di ragionare sul futuro.
Fino agli anni ‘90 e all’ubriacatura della delocalizzazione, l’Italia possedeva competenze e capacità produttive per realizzare interamente ogni bicicletta, da quelle per i professionisti a quelle per la città. Soprattutto nello sport, l’Italia produceva straordinarie e iconiche bici da corsa (e da pista), con materiali relativamente semplici (acciaio e alluminio) e grande, italiana, attenzione al design come forma e funzionalità.
Poi le cose sono sfuggite di mano. La corsa ai prezzi ha portato allo spin off radicale della produzione verso l’estero, e alla chiusura di chi, rimanendo in Italia, finiva fuori mercato. Con le fabbriche, andavano all’estero anche le competenze produttive, il mitico “saper fare”, e se non emigrava invecchiava. Perché nel frattempo sono arrivate sulla scena nuove tecnologie (il carbonio, i freni a disco) e nuove biciclette (le mountain bike e soprattutto le e-bike).
La produzione italiana prendeva la forma sartoriale dei telaisti, capaci di fare prodotti su misura straordinari, soprattutto utilizzando la plasticità dell’acciaio (ma anche il carbonio e il titanio). Pezzi stupendi, grande seguito internazionale, ma volumi bassissimi. I grandi brand italiani, grandi più per la memoria che per i volumi (il confronto con i giganti è fra milioni e miliardi di dollari di fatturato) sceglievano l’eterno modello Vespa: poca innovazione e molto valore simbolico, miti stiracchiati. Soprattutto, dal made in Italy passavano al designed in Italy, o al massimo all’assembled in Italy.
Sulla componentistica, invece, a parte selle e ruote, si arrivava alla completa desertificazione: si è persa capacità produttiva e soprattutto competenze in un pezzo della meccanica leggera che avremmo potuto tranquillamente presidiare.
È italiano il più piccolo produttore del tripolio che governa il mercato dei componenti per biciclette, con un posizionamento e costi altissimi e una gamma di prodotto molto focalizzata sulla performance da strada e meno sulle evoluzioni del mercato, ma anche nel suo importante sito produttivo italiano si è ben lungi dal chiudere il ciclo senza ricorrere al far east. Anche progetti alternativi, microscopici ma molto interessanti, lamentano la difficoltà di approvvigionarsi di minuterie meccaniche, più per pancia piena e mancanza di voglia che per obiettiva difficoltà di produzione. Siamo un Paese in cui un distretto meccanico in crisi si è reinventato producendo parti metalliche che entrano nel nostro corpo, sapremmo bene fare qualche vite. Se saliamo di tecnologia e parliamo di elettrico, a parte qualche piccolo produttore, è notte fonda.
Con il pragmatismo che caratterizza i fondi di investimento globali che hanno acquistato molto nostri brand, sono stati annunciati nei giorni scorsi progetti di investimenti produttivi in Italia. È certamente un buon segnale, e una scelta assennata, ma si può e si deve fare molto di più e farlo con progetti di sistema.
La bicicletta è il mezzo di mobilità del futuro per sostenibilità e contributo alla salute di società che invecchiano. Per questa ragione, la domanda è ragionevolmente destinata a salire anche se a ritmi più lenti degli attuali. Lo sport e la performance saranno un aspetto, di alto profilo ma marginale, di un mondo di biciclette urbane, biciclette elettriche e biciclette condivise. Per essere seriamente sostenibili, questi mezzi non potranno aver viaggiato anche due o tre volte per il mondo, dovranno essere prodotte almeno nello stesso continente.
Le biciclette, anche quelle più performanti, non sono rocket science, ma prodotti middle tech, innovazioni incrementali, soprattutto di materiali e design, il nostro pane, insomma.
Non c’è davvero nulla che con impegno e investimenti dedicati, innanzitutto in capitale umano, non potremmo tornare a produrre in Italia. Qui c’è una tradizione produttiva nel settore e competenze meccaniche assai più sviluppate ad esempio del Portogallo, che sta costruendo una Bike Valley per consolidare il proprio primato europeo come produttore di biciclette, grazie a un progetto governativo che sostiene joint venture locali fra produttori internazionali. Molti di quei telai prima erano prodotti in Italia. Perché Vouzela sì e Termini Imerese (o mettete voi un altro sito industriale abbandonato) no?
Il refrain è quello del nanismo delle imprese italiane, anche le più visibili, ma è un falso problema (nel senso che i gap non sono colmabili), e soprattutto dimensioni superiori non garantirebbero risultati diversi. Servono visione e innovazione vera, per pensare a un mercato globale new normal disegnato diversamente e alla tecnologia come la fonte di energia che rende i progetti più innovativi sostenibili.
Bisogna ricostruire la filiera produttiva italiana della bicicletta come parte della politica industriale italiana per i prossimi decenni, utilizzando le tecnologie 4.0 per recuperare i gap di efficienza e di costo, consentendo una produzione sostenibile anche perché on demand e distribuita, così da azzerare le ragioni che hanno portato alla desertificazione attuale. Le tecnologie 4.0 non sono medagliette per farsi belli nei convegni o gratta e vinci per un po’ di incentivi fiscali, sono chiavi per fare cose prima impossibili.
Un progetto simile è troppo complesso e visionario per lasciarlo al mercato, non è più quel tempo, anche perché non è pensabile che riaggreghino la filiera quegli stessi soggetti che hanno lavorato per disarticolarla, a maggior ragione oggi che quesi nessuno parla più italiano e chi lo fa non ha più interesse ad avere un ruolo guida come ebbe in passato.
Bisogna innovare davvero, e deve avere un ruolo anche il pubblico, tornato attore protagonista dell’economia. Del resto cosa c’è di più PNRR compatibile di una produzione sostenibile e tecnologicamente avanzata come ricostruire la filiera italiana del mezzo green per eccellenza grazie al 4.0?
La regia pubblica, ad esempio attraverso CDP, deve battezzare le aree produttive, mettere a disposizione risorse per progetti di ricerca e innovazione, per la formazione di nuove competenze e l’incubazione dei fermenti imprenditoriali, mettere a un tavolo imprese esistenti, artigiani e start up con lo scopo di dare vita a un distretto della bicicletta italiana che ne faccia rivivere i fasti, prima che le suggestioni del passato si esauriscano completamente e rimangano oggetti da museo. Si può fare adesso, basta volerlo.
Sarebbe bello che, indipendentemente da dove si deciderà di insediare queste produzioni, il la al progetto fosse dato in cima alla salita del Ghisallo, luogo di fatiche e di gioie. E magari che il Patto del Ghisallo segnasse una ripartenza della storia italiana delle due ruote. Che sono un mezzo che ben si presta a imprese e utopie.