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È cominciata la Fase 2 e le preoccupazioni dall’ambito sanitario si riversano ora principalmente all’ambito economico.

Al di là delle divagazioni letterarie sul “cambierà tutto”, “saremo tutti più buoni”, “riscopriremo una nuova semplicità”, l’unica certezza è che nelle Fase 2 e nelle successive saremo tutti, come Paese, più poveri, con meno PIL, meno occupati, meno imprese.

Crisi normale e comune a tutti i paesi, come lo è stata la pandemia, ma il recupero da questa depressione economica può avere e avrà tempi anche molto differenti e definirà nuove gerarchie, nuove liste di sommersi e salvati. Forse definirà dal nuovo non è esatto, più che altro approfondirà e radicalizzerà dei trend già in atto, cosa per noi assai poco consolatoria. L’economia italiana era debole anche prima del Covid e anche prima del Covid faticava a tenere il ritmo dell’economia contemporanea a trazione digitale.

La gelata delle attività economiche a seguito del lockdown non ha semplicemente congelato la situazione a febbraio 2020. Ripartire non è lo stesso che continuare, soprattutto se, come è per molta parte dell’economia italiana, molto del moto era inerziale, consuetudinario, equilibristico.

Si riparte in un contesto economico e competitivo differente, con gerarchie ridefinite. Un contesto nel quale razionalizzazione di risorse scarse e (dunque) digitalizzazione dei processi e dei modelli di business faranno sempre più la parte del leone.

La produttività del lavoro e la capacità di innovazione delle imprese diventeranno ancora più radicalmente di prima determinanti per la salute della nostra economia, il mantenimento dei livelli occupazionali, il benessere futuro. Non c’è filosofia o decrescita felice che tenga.

Produttività e innovazione chiamano in causa una variabile cruciale e assai marginalizzata nel dibattito sulla ripartenza, la qualità del capitale umano e in ultima istanza l’attività propedeutica al mantenimento della sua competitività, ossia l’educazione a tutti i livelli, dalla scuola all’aggiornamento permanente per chi è al lavoro e ancora di più per chi inevitabilmente un nuovo lavoro dovrà trovarlo dopo averlo perduto nella crisi.

La scuola, subito chiusa per essere riaperta probabilmente a settembre secondo modalità ancora ampiamente vaghe, è stata un buco nero nella gestione governativa della crisi, così come lo sono stati i bambini e i ragazzi. Il congelamento del moto inerziale della scuola ha sollevato tematiche sociali come l’educational divide che dovranno essere seriamente e velocemente affrontate.

Per venire ai livelli superiori, ritengo assai probabile che nella ripartenza la domanda di nuove competenze per lavoratori e imprenditori si farà per ragioni assai concrete ancora più forte e pervasiva di prima, quando pure i segnali erano evidenti.

Bisogna utilizzare appieno le potenzialità del 4.0 per recuperare produttività e competitività, bisogna accrescere il valore aggiunto dei prodotti e dei servizi, bisogna saper interpretare i cambiamenti e le richieste di un mercato assai più povero e incerto.

Dalla grande industria alla piccola bottega artigiana, tutte le imprese saranno chiamate a sforzi di discontinuità straordinari, che richiedono persone e competenze nuove e trasformate.

Quando il responsabile global del recruiting AUDI, che fino a prova contraria produce sofisticatissimi pezzi di ferro, certifica in un seminario OCSE sull’education il superamento in termini di importanza delle competenze digitali rispetto a quelle ingegneristiche e sostiene che “le competenze digitali sono il nuovo inglese per i recruiter” (ossia qualcosa che se non si possiede ti squalifica) e allo stesso tempo le imprese artigiane raddoppiano la loro propensione a strutturare servizi di e-commerce significa che qualcosa è mutato strutturalmente.

L’italia, come scrive l’OCSE in un report fondamentale per cogliere lo stato dell’arte del sistema delle competenze nel nostro Paese in una prospettiva internazionale è “intrappolata in un equilibrio di basse competenze – un sistema nel quale la scarsa offerta di competenze si accompagna alla scarsa domanda da parte delle imprese”.

Nel “dopo” questo equilibrio dovrà per forza essere alterato: le imprese che ripartono non potranno più permettersi di mantenere questo equilibrio al ribasso e le diseconomie che lo accompagnano, e soprattutto dovranno governare cambiamenti nelle priorità strategiche, nell’organizzazione dei mercati e nel modo di lavorare e consumare. Tutti ambiti contrassegnati dalla pervasività delle tecnologie digitali.

Stiamo come sistema Paese andando in questa direzione? Purtroppo, non pare.

Come si evince dal decreto Rilancio e dalle prese di posizione di autorevoli e rappresentativi esponenti del Governo, la risorsa strategica delle competenze non è ai primi posti nell’agenda.

Non è il solo tema strategico ad essere poco considerato dalla redistribuzione delle risorse pubbliche per la ripartenza e in tutta onestà non credo vi sia malanimo nei confronti del tema, quanto assai scarso interesse e diffidenza verso ogni iniziativa che vada al di là della redistribuzione, vera o annunciata, di risorse pubbliche.

Ovviamente la benzina pubblica è vitale per fare ripartire i motori dell’economia e dei consumi, completamente a secco e incapaci di riaccendersi da soli, su questo credo vi sia assoluto accordo. Il problema è il dopo. A un certo punto la benzina finirà di nuovo e oggi non si sa cosa fare a quel punto. Lo Stato Benzinaio ad oggi non ha chiaro né se avrà benzina per tutti, né cosa farà quando il pieno finirà (e non troppo segretamente si balocca con l’idea di sostituire il guidatore con sé stesso e guidare come un pazzo a fari spenti nella notte verso il Sudamerica).

Chiudere gli insostenibili gap in termini di infrastrutture e competenze digitali è la migliore soluzione strutturale alla mancanza di benzina della nostra economia (che solo con l’innovazione potrà anche abbandonare la benzina per combustibili più contemporanei).

Anche l’Unione Europea, che sarebbe opportuno trattare in modo più adulto e non solo come bancomat, in una raccomandazione di ieri sottolinea: “Investire nella digitalizzazione e nelle competenze mediante un’attuazione costante e tempestiva di politiche nazionali mirate è essenziale per migliorare i modelli di commercio elettronico e aiutare le imprese ad adattarsi, così come per promuovere la produttività e la competitività”.

Il riassorbimento dell’inevitabile disoccupazione di massa, che si abbatterà sul Paese non appena verrà tolto l’attuale divieto di licenziamento, non potrà in alcun modo avvenire a saldi di competenze invariati. Qualunque posto di lavoro, qualora dovesse essere riassegnato, richiederà il nuovo inglese delle competenze digitali.

Per questo è necessario e urgente progettare, magari con una parte dei 100 miliardi del Fondo Merkel-Macron (se arrivano), un re-skilling e un up-skilling digitale di massa della forza lavoro italiana, dipendenti, manager e imprenditori. Vale per tutti i settori, anche per quelli apparentemente più analogici come il turismo, il commercio, i servizi alla persona. Vale per tutti gli ambiti di intervento, dalla scuola alle politiche attive del lavoro (che non potranno certo far gestire una disoccupazione all’11,6% ai soldatini di stagno dei navigator).

Lo Stato Benzinaio dovrebbe superare le sue croniche difficoltà (per assenza di visione, frammentazione delle competenze, cattiva volontà) a concepire e gestire politiche complesse e mettere sul tavolo risorse pubbliche, e condizionare parte delle risorse future, a favore di progetti qualificati (non di un progetto di Stato, ma di progettualità diffuse, pubbliche, private, del terzo settore) che rispondano all’obiettivo di aumentare la dotazione di competenze digitali del sistema, a fianco e a supporto degli investimenti in infrastrutture digitali.

Non ci sono risorse? Questo non è un vezzo, ma l’unica reale opportunità per far ripartire l’economia italiana non come un ectoplasma completamente dipendente dai sussidi pubblici.

I modelli, gli strumenti e le buone pratiche ci sono già, anche molto vicino.

Future Education Modena è uno straordinario esempio di fucina di idee, ricerca e sperimentazione sulla scuola del futuro, dove il digitale ha un ruolo insostituibile.

École 42 in Francia, scuola di coding gratuita, senza docenti e aperta a tutti senza vincoli di età né di background rappresenta un esempio estremo ma affascinante di modello educativo aperto.

Gli ITS, con il progetto ITS 4.0, si candidano autorevolmente ad essere i referenti principali per i bisogni di trasformazione digitale del sistema delle MPMI italiane molto più concretamente dei Competence Center, troppo legati a logiche di innovazione e trasferimento tecnologico di tipo industriale.

Le università, che in tutto il mondo sono costrette a rivedere profondamente il loro modello di business e in alcuni casi la loro value proposition, possono entrare nella partita con modelli intelligenti (e digitali) di allargamento della platea al di là di quelle tradizionali.

Gli ingredienti ci sono tutti, le ricette pure, la fame tra poco diventerà malnutrizione di massa.

Intanto sarebbe utile che qualche esponente politico sollevasse di peso la questione, poi che gli esempi che ho portato (o qualcun altro anche migliore che mi sono dimenticato) facessero delle proposte per partire.

Il tempo è poco, il lavoro da fare tanto, tocca tornare a studiare.

 

Ph.: Bruno Panieri