“Spiacenti! Lo stile di vita che hai ordinato è esaurito”: Ventura e la strage delle illusioni

Raffaele Alberto Ventura è un grande intellettuale, assolutamente e felicemente moderno, a proprio agio su tutta la tastiera del sapere umanistico e sociale, da Kierkegaard alla letteratura russa, da Fantozzi ai supereroi Marvel. Il suo ultimo libro, “La conquista dell’infelicità” – a mio parere il migliore per chiarezza e forza argomentativa “chirurgica” dopo “Teoria della classe disagiata” – è un ritratto cupo della caduta, sempre più irrefutabile e sempre meno recuperabile, di quella classe di lavoratori della conoscenza, della creatività, del terziario avanzato, alla costante ricerca di un impossibile equilibrio tra quello che si è e quello che la condizione di partenza, i media, le aspettative sociali ci avevano promesso come assai probabile, anzi sicuro. Lo è stato, forse, abbastanza, quando l’economia cresceva – a prezzo delle risorse del pianeta e del sottosviluppo altrui – e il sistema di aspettative sociale era ben più confinato. Oggi che le aspettative sono esplose, così come esplosi sono coloro che tali aspettative nutrono – sceneggiatori, giornalisti, copywriter, ma anche avvocati, consulenti, architetti – è semplicemente chiaro che non c’è posto per tutti: siamo in un’opera di Banksy, quella che dice “Sorry! The lifestyle you ordered is currently out of stock”.

Cosa si fa allora? Si continua a puntare su quello che ci avevano garantito avrebbe fatto la differenza: formazione, esperienze, visibilità, tecnologia. A ogni giro si punta sempre più forte, il raddoppio della martingala secondo la geniale metafora di Ventura, per recuperare quello che si è perso nella puntata precedente, ma non funziona quasi mai. Le porte sono strettissime, e rigidamente presidiate dalla cooptazione degli insider; il mercato della formazione è sempre più un suk (viene in mente “L’università dei tre tradimenti” di Raffaele Simone); la tecnologia, che dove liberare risorse, allarga le diseguaglianze e solletica gli istinti peggiori, dalla fabbrica del caos dei social all’avidità che spinge un’importante rivista di management a dover spiegare che sacrificare sul lavoro i giovani per l’IA non è una buona idea.

Che si fa allora? Si insiste, ci si deprime – moltissimo, il boom di assunzione di antidepressivi per contrastare il disagio della civiltà è impressionante, non si fanno figli, si galleggia, si riscopre la religione – e ci si arrabbia, per ora in modi tutto sommato urbani, e soprattutto per interposta causa.

L’ha spiegato bene, riferendosi all’Italia, il vicedirettore del Corriere della Sera, Federico Fubini, in un fondo di qualche giorno fa: il paese non sta bene e a fronte di ineguaglianze crescenti, e di stipendi fermi da anni mentre i profitti monopolistici sono cresciuti, l’improvvisa solidarietà di massa per Gaza, problema non nuovo e rimasto di nicchia in un paese disinteressato alla politica estera, era anche un nobile pretesto per rivendicare la propria di rabbia, il proprio, si parva licet, essere a propria volta vittime. Per questo, opinione mia, il David palestinese contro il Golia israeliano (e occidentale) mobilita più dell’Ucraina o di conflitti che molti non riuscirebbero nemmeno a geolocalizzare, come il Sudan, perché è considerata come una spremuta di forza e violenza occidentale, ramo dello stesso albero che inquina e precarizza. Albero verso cui, disarticolata anche perché ricondotta a categorie novecentesche (destra-sinistra, fascismo, neoliberismo), monta la rabbia, sbattuta come la panna da legioni di imprenditori e imprenditrici del rancore di segno opposto, da Trump e Vannacci a Francesca Albanese, accomunati dalla leadership non come risoluzione, ma come accelerazione dell’entropia: se niente sembra funzionare, vale tutto, dalla Mas ad Hamas. Per parafrasare i supereroi amati dall’autore, “non gli eroi di cui avevamo bisogno, ma quelli che meritiamo”.

Per offrire una chiave interpretativa di questo tempo confuso, Ventura parla di passioni – non è il primo intellettuale a tornare sul tema di recente, consiglio caldamente di leggere “Modernità esplosiva” di Eva Illouz, stessa scuola parigina e stesso editore – e si capisce: in un momento in cui i conti globali, economici e individuali non tornano, torna ad avere senso guardare a quello che si agita nella pancia e nel cuore delle persone. Quel sistema limbico in cui si sviluppano le reazioni più viscerali, derubricato per decenni come pensieri semplici per persone semplici (facili prede dei ciarlatani populisti) dagli esponenti di quel pensiero tecnocratico che proprio a Parigi sta vivendo la sua più fragorosa bancarotta dopo aver battuto moneta di promesse di sviluppo senza averne le risorse.

Nel suo lavoro di intellettuale, Raffaele Alberto Ventura può permettersi il lusso di non dover proporre una soluzione, quelle spettano ad altri, ma stavolta la pars construens c’è, anche se nessuno è in grado di curare la malattia, e sarebbe già un bel miracolo riconoscerla. Ventura ci invita ad accogliere le passioni più tristi, inclusa la disperazione, a sminare il campo dalle trappole individualiste dell’economia posizionale, tornando a concepirci come comunità, anche tornando a guardare al sacro (c’è un ritorno sempre più evidente alla pratica religiosa, unguento per tempi difficili). Finanche, e finalmente, a riscoprire il senso sociale del lavoro manuale e di cura, marginalizzato da decenni di fesserie sulla rispettabilità borghese del solo lavoro intellettuale.

Sono tuttavia tattiche per fare passare la nottata perché, l’autore è chiaro, di questo equilibrio delusionale si salva ben poco: “La classe disagiata non si sveglierà un bel giorno smettendo di essere classe disagiata. I suoi bisogni sociali, le sue aspirazioni, persino le sue velleità, sono radicati in un sistema che li rende necessari, e sempre più necessari. Eppure distruttivi, sempre piú distruttivi. Per guarire la classe media dalla sua disperazione – e il pianeta dalla piaga che lo consuma – non basteranno timide riforme né sforzi individuali: ci vuole una rivoluzione che sia contemporaneamente sociale, economica e culturale, un passaggio di civiltà”.

Non so se la vedremo, e soprattutto se le forme che prenderà saranno quelle che auspichiamo, ma sono tempi eccezionali e forse serve qualcosa di più.