Ho letto con grande piacere il libro a cura di Antonio De Rossi e Giampiero Lupatelli, Rigenerazione urbana e territoriale. Un sussidiario (Donzelli), che tratta di un tema, quello dei territori in transizione nell’epoca furiosa, che mi appassiona intellettualmente e professionalmente.
Al di là del linguaggio spesso circonvoluto, proprio della gran parte dei territorialisti, il volume fa il punto sul tema ospitando una grandissima varietà di contributi, tutti assai autorevoli, organizzati nella seconda parte anche con un glossario molto efficace e completo, che spazia da temi classici della rigenerazione territoriale a fatti nuovi, come l’intelligenza artificiale, a testimonianza della crescente complessità (e delle opportunità) dei territori, urbani e non, in trasformazione.
Ho particolarmente apprezzato, oltre al contributo di Antonio De Rossi e Laura Mascino sui limiti degli approcci convenzionali e mercatistici alla rigenerazione territoriale, due contributi.
Il primo è quello sulla transizione demografica, curato dal demografo Gianluigi Bovini, che definisce il campo di gioco. I dati, adamantini per chiarezza e durezza, sull’invecchiamento, il crollo delle nascite e il calo della popolazione attribuiscono al nostro Paese un primato globale per radicalità e velocità delle trasformazioni, riscrivendone inevitabilmente l’identità: siamo il secondo Paese manifatturiero d’Europa e, al contempo, il più vecchio. Di fronte a evidenze così solide e trasformative, se cambia il numero e la composizione della società, non possono non cambiare la società stessa, l’economia, la politica, i luoghi vissuti e trasformati dalle persone. Bisogna comprendere che non si può più prescindere dalla demografia, e che ogni ragionamento che non conti quanti e chi siamo e saremo è un ragionamento zoppo, astratto o fallace.
Bisogna anche comprendere che proprio l’eccezionalità demografica italiana spinge inevitabilmente verso soluzioni sperimentali e radicali. Con l’eccezione del Giappone – grande Paese con un quadro demografico ancora più critico, ma con un’organizzazione sociale da cui possiamo trarre spunti necessariamente limitati – l’Italia è il primo grande Paese a entrare nel territorio inesplorato della transizione demografica radicale e irreversibile. Questo chiama a sperimentare soluzioni inedite, prototipali, nell’economia, nel lavoro, nel welfare e, ovviamente, nella gestione dei territori dove le persone vivono, da cui sono andate via e a cui possono tornare.
Il tema del “neopopolamento” della montagna è il secondo contributo che ho trovato di enorme spunto e interesse. Lo firma un grande intellettuale come Fabio Renzi, segretario generale della Fondazione Symbola, ambientalista storico e osservatore acutissimo e non convenzionale delle trasformazioni dei territori.
Il ragionamento di Renzi parte da un neologismo (altra passione linguistica dei territorialisti) coniato nel Manifesto per una nuova centralità della montagna, redatto a Camaldoli nel 2019, che invocava «un progetto nazionale di neopopolamento della montagna che crei diritti, convenienze e statuti di donne e uomini liberi […] [che] dovrà puntare alla qualità dei rapporti e all’intensità relazionale e non ad accrescere senza limiti il numero degli abitanti. Il ritorno alla montagna – e prima ancora il diritto di chi ci nasce a restarvi – si deve sostanziare in un grandioso progetto promosso dal governo centrale insieme agli altri enti territoriali e agli attori locali, comprendente un insieme di azioni che valorizzino le nuove convenienze a vivere e lavorare in aree montane, specie in quelle più bisognose di recupero».
Come per la demografia, alla quale è indissolubilmente legato, il governo della montagna – regina delle terre vuote – non può essere pensato come ricostruzione di equilibri ormai superati nei fatti, ma deve inevitabilmente spingersi in terre ignote, possibilmente con la passione evocata da un altro grande maestro e attore di trasformazioni comunitarie in terre remote, come Giovanni Teneggi: «Se diciamo neo-popolamento invece di ri-popolamento, allora dobbiamo dire generazione e non ri-generazione. Occorre una nascita nuova e consapevole dei territori: altra, intenzionale, scardinante, dirompente, gioiosa».
Rinfranca leggere queste pagine e recuperare aggettivi come “grandioso”, “dirompente”, “gioiosa”, che rompono tanto con la vulgata un po’ burocratica della pianificazione sulle aree interne – ci tornerò – quanto, soprattutto, con l’insopportabile buttarla in poesia della scuola della “restanza” come scelta consapevole delle nozze coi fichi secchi. Siamo il secondo Paese più vecchio al mondo e, di fronte a questo dato, è quanto mai vero che carmina non dant panem.
Serve altro: nelle parole di Renzi, «una visione che enfatizzi il carattere aperto, innovativo e sperimentale – culturale, sociale ed economico – di una missione che giovani nativi climatici e digitali possono sentire come propria, proprio perché si compie sul terreno dove convergono crisi climatica, innovazione tecnologica e digitale, spingendosi fino alla frontiera dell’intelligenza artificiale. Una missione che può dare valore e rispondere a quella domanda di orizzonte di senso e di maggiore equilibrio con le proprie scelte di vita, che segna profondamente il rapporto con il lavoro delle giovani generazioni».
Qui, a mio avviso, il contributo e il libro segnano un punto di grande innovazione e interesse, che provo a seguire andando un po’ oltre: in luoghi e comunità che si svuotano e invecchiano c’è oggi la possibilità inedita di ricostruire comunità all’insegna della libertà – individuale e collettiva – di sperimentare e costruire nuove, anche molto nuove e radicali, forme di vita e di creazione e scambio del valore.
Laddove i contesti urbani soffocano la libertà a fronte di condizioni economiche e organizzative sempre più escludenti, e la provincia vive sempre più triste e passiva l’avvitamento tra nostalgia del passato e incomprensione del futuro, la montagna e le aree remote hanno lo spazio per rivendicare il loro ruolo di luogo del possibile. Non per tutti, e non per tutto – dacché i vincoli orografici e ambientali ne delimitano comunque il campo – ma certamente per un numero sufficiente di nicchie di cercatori di senso, che la teoria della coda lunga ci ha insegnato essere il vero obiettivo di tutto ciò che non è di massa.
Nella pratica, questo potrebbe significare politiche pubbliche più leggere e di quadro circa i progetti di rigenerazione, che abbiano cioè più attenzione e curiosità verso le energie non espresse, piuttosto che la pretesa – per quanto generosa – di capirle e anticiparle facendone un bando. Serve grande attenzione alla dotazione digitale e un lavoro inedito per capillarità e ambizioni globali per individuare appunto le nicchie a cui offrire luoghi in cui lavorare, sperimentare, ricominciare, stare assieme diversamente tra simili. Se suona un po’ anni ’60 è perché un po’ lo è: fallita la suggestione di portare in montagna i lavoratori dello smart working o i consulenti che hanno bisogno dell’aperitivo per cercare i clienti, bisogna realisticamente ragionare sui geniali, sugli irregolari, sugli espulsi dalle regole soffocanti dei luoghi, dei riti e dei costi del capitalismo maturo.
Nomadi digitali veri, neo-contadini, curatori del bosco: il catalogo delle fette della coda lunga è infinito, e nominandolo lo si riduce al pensabile. Occorre invece ragionare sui luoghi e, soprattutto, affidarsi all’intelligenza e alla creatività diffuse.
In generale, riportare la libertà – di sperimentare, fare comunità, fare impresa, ricercare il proprio senso – deve tornare a essere il faro di politiche pubbliche che facciano più leva sull’accogliere la complessità e la creatività, piuttosto che sul rispondere alla propria idea del mondo. Certo, è un esercizio più difficile e rischioso, ma tempi eccezionali chiamano coraggio e misure altrettanto eccezionali.