Cosa l’Intelligenza Artificiale dice del nostro lavoro, e di noi

Mi considero molto fortunato per il lavoro che faccio, soprattutto per la varietà che lo caratterizza, mettendo insieme attività intellettuali con altre più propriamente organizzative e una costante interazione con persone e ambienti molto diversi.

La tecnologia digitale ha accompagnato e sostanziato questa varietà sin dall’inizio: con una formazione umanistica, ho passato e continuo a passare molto tempo a raccontare e spiegare il digitale a chi per varie ragioni non lo pratica. Per poterlo raccontare, ho sempre cercato di provare le tecnologie, giocarci e pensare ai loro pregi e limiti da una prospettiva diversa da quella di gran parte dei divulgatori “evangelisti”, il cui ottimismo costante e superficiale mi ha sempre lasciato freddo.

L’approccio prevalente al racconto della tecnologia digitale è da molto tempo imbevuto di elementi misticheggianti: il digitale arriva, invade e cambia tutto con una forza sovrumana, a cui è vano e temporaneo resistere. Il digitale, argomenta il pensiero quasi unico, non si discute, si recepisce, al massimo provando invano a regolamentarlo per fermarne la corsa distruttiva.

Questa mistica è giunta, per ora, al suo apice con le tecnologie dell’Intelligenza Artificiale generativa e aperta, accompagnate sin dall’inizio da toni più consoni a qualcosa di extraterrestre, divino o alieno. Oppure una sorta di virus che avrebbe potuto renderci addirittura inutili, con pochissime e casuali opportunità di sottrarci, appunto come con un virus, se non abbracciandolo acriticamente.

L’ambito nel quale questo dio cattivo avrebbe colpito con maggiore spietatezza era quello del lavoro: dietro il velo di mille nuovi lavori inesplorati e inesistenti che sarebbero cresciuti all’ombra della rivoluzione digitale c’erano sempre più lunghe liste di proscrizione dei lavori umani destinati ad essere marginalizzati dall’IA, nuova e più potente macchina di sostituzione dell’umano.

È un meccanismo narrativo che funziona molto bene, soprattutto in questi tempi cupi, quello che ci spaventa desta la nostra attenzione rettile, ma che deresponsabilizza, i lavoratori e chi li organizza. Di fronte all’invasione, nessuno è realmente responsabile delle proprie scelte: né i lavoratori che non hanno voglia di cambiare, né soprattutto coloro i quali ne marginalizzano il lavoro o li sostituiscono con le macchine. La narrazione miracolistica ha un prezzo: si smette di pensare.

Sperimentando l’IA nei contesti e nelle funzioni molto differenti del mio lavoro, ho maturato invece una convinzione diversa, ossia che oggi sia più rilevante capire cosa la tecnologia dice di noi e soprattutto del nostro lavoro oggi, anche e soprattutto indipendentemente da essa. Per lavorare meglio e non da ultimo per utilizzarla più consapevolmente e dunque in modo assai efficace. Oggi siamo giunti a un punto in cui la tecnologia è interessante non solo per sé, né solo per i suoi impatti e conseguenze, ma per quello che dice di noi e del nostro lavoro, perché ci costringe, o dovrebbe costringerci, a guardare a quello che facciamo con occhio più critico e meno prono all’abitudine e al fatalismo.

La sintesi più efficace di questo tempo di sperimentazione e utilizzo consapevole e intensivo dell’IA generativa la prendo a prestito da un amico accademico, che ha preso ad utilizzarla e se ne è appassionato: “l’intelligenza artificiale preverrà l’Alzheimer per alcuni, e lo accelererà per altri”. Una modalità brutale ma assai efficace per descrivere il processo di accelerazione che una tecnologia così potente di organizzazione della conoscenza impone al lavoro di tutti, discriminando pesantemente le conseguenze a seconda del livello qualitativo del lavoro, con i salvati che potranno andare sempre più veloci, essere sempre più informati, competenti, produttivi e i sommersi che saranno sempre più ai margini. Vale ovviamente soprattutto per i lavori riconducibili al variegato mondo dei servizi avanzati e della conoscenza, passati nello spazio di un mattino da aristocrazia professionale a vittima designata dell’automazione.

Tutta colpa dell’incedere inarrestabile dell’orda tecnologica, come si racconta? Ne sono personalmente sempre meno convinto, mentre sono sempre più persuaso che c’entrino scelte molto umane e soprattutto di quello che la tecnologia trova sul suo cammino, del livello di resistenza. Quello che è più sostituibile è un lavoro già per molti versi marginalizzato e disumanizzato da umanissime scelte organizzative e di business, che la tecnologia accelera e permette di rendere più nette, attribuendo ad essa le colpe.

Cosa ha detto a me questa esperienza? Che esiste un discrimine sottile, ma profondissimo, tra attività intellettuali che possono trovare nell’IA uno strumento inebriante di accelerazione ed espansione del pensiero ed attività sempre intellettuali, considerate necessarie, che alla luce di quanto la tecnologia permette si rivelano “gommapiuma”, un mero riempitivo che certamente ChatGPT o chi per lui potrebbe produrre con poche istruzioni e pochissimi errori.

La galassia variegata della “comunicazione” e delle sue professioni è un punto di osservazione particolarmente ricco, non certo l’unico, ma uno dei più maturi e promettenti, per cogliere questi fenomeni. La comunicazione è diventata in pochi anni un’attività fondamentale e “obbligatoria”, esplodendo poi con i social network, ha inglobato la gran parte delle attività di informazione, ha dato forma a tutte le modalità di interazione pubblica, a partire dalla politica, e ha richiamato legioni di giovani intenzionati a farne una professione, diventando in metropoli come New York, Londra o la nostra Milano un driver fondamentale dell’economia.

Bene, quanta parte dei prodotti di questo settore è già oggi gommapiuma? Quanti testi di siti web, post di social network, contenuti di newsletter e brochure, materiale informativo, email, comunicati stampa, finanche interi articoli sono già oggi e senza colpo ferire sostituibili dall’IA? Quali magari un competitor della nostra azienda ha già da qualche parte del mondo sostituito? Vi invito a fare questa prova in prima persona, in una normale giornata di lavoro, informazione e interazione social e attraversamento dei luoghi in cui vivete: quanto dei contenuti a cui siamo sottoposti è, non dico inutile, siamo nell’era della comunicazione che riempie gli spazi e saremmo persi senza, ma talmente standard, scontata, poco curata e già vista da essere certamente realizzabile dall’IA?

È colpa delle tecnologie se questo accade? Non tanto di più di quanto sia colpa dell’automobile l’incidente provocato dal suo guidatore ubriaco.

Anche la semplice acquisizione di competenze specifiche, l’imparare a guidare questi mezzi, è certamente utile, ma per molti versi non risolutiva: utile perché si diventa domatori di leoni, li si addestra e gli si dà da mangiare, che è meglio che essere semplicemente rimpiazzati dai leoni stessi; non risolutiva perché questi particolarissimi animali apprendono e prendono sempre più spazio. Quello di chi addestra e controlla la qualità della produzione di gommapiuma da parte delle IA è uno spazio destinato inesorabilmente a restringersi, dacché queste incamerano sempre più informazioni e raffinano la capacità di leggere e adattarsi ai contesti, quindi sbagliano sempre meno.

Non c’è alternativa quindi al guardare indietro e al pensare a se stessi e a quello che si fa: quanta parte del vostro lavoro è dedicato alla produzione e scambio di gommapiuma? Quanto voi, i vostri colleghi, la vostra organizzazione e chi la dirige partecipate acriticamente a questa produzione industriale di gommapiuma, senza pensare alle conseguenze e soprattutto senza porsi il problema di isolare, proteggere e magari aumentare quello che non lo è perché è invece eminentemente umano? Quanto, domanda per i più giovani, nel crescere professionalmente all’interno dell’organizzazione in cui siete (o vorreste essere) diminuisce il peso della produzione di gommapiuma, che in una qualche misura è inevitabile, in favore di attività “umane” nel migliore dei sensi?

Se il peso della gommapiuma sul vostro lavoro è oggi, ipotizziamo una proporzione, superiore a un terzo del vostro lavoro, e soprattutto se con la progressione di carriera non è destinato a scendere ben al di sotto di questa proporzione, in favore di attività che premino la vostra competenza e il vostro contributo personale, allora preoccupatevi. Cambiate azienda, o cambiate lavoro, soprattutto se il lavoro non è mera fonte di sostentamento materiale, ma parte integrante dell’identità personale e intellettuale. Cambiate perché avete bisogno di senso, e nelle organizzazioni che producono troppa gommapiuma che si può automatizzare, ma anche precarizzare e polverizzare in mille, piccolissimi, lavoretti il senso del lavoro si è perso, e non tornerà. L’automazione qui rischia velocemente di mangiarsi tutto, più presto che poi.

Ci sono alternative? Penso di sì, spostandosi sul crinale di quello che invece è umano, perché tale è destinato a restare, sfuggendo all’automazione, oppure perché chi lo produce sceglie di mantenerlo tale come elemento di valore aggiunto. Vale per forme di produzione comunque elitarie, come quelle scientifiche, artistiche e letterarie, che riguardano però poche persone. Vale però anche per tutti quegli altri soggetti e organizzazioni che producono valore mediante l’organizzazione della conoscenza e che scelgono nell’era dell’automazione di investire esplicitamente sull’elemento umano, senza cedere bovinamente alle tendenze del mercato o dell’abitudine, siano una testata giornalistica che pubblica pezzi scritti con umana cura, una società di consulenza che non vende a peso d’oro il lavoro di un gruppo di stagisti chini su Gemini, un post in meno ma scritto con un senso.

Oppure ancora vale per tutti quei lavori, anche manuali, e quei servizi in cui il fattore umano, la faccia, la voce e la competenza continuano ad avere un senso, nonostante la finta aristocrazia del lavoro immateriale li avesse nel tempo relegati alla marginalità assoluta.

Esistono, benché siano ovviamente rare e impervie, alternative all’avanzare ancora una volta bovinamente verso il macello sociale e personale dell’automazione e marginalizzazione del nostro lavoro, bisogna però pensarci, parlarne, organizzare. Senza cadere nella comoda trappola del “è stata l’intelligenza artificiale”, o i signori rapaci della Silicon Valley, e non anche i propri e assai più vicini capi ignavi o azionisti avidi, oltre che il proprio rifiuto di riconoscere che le cose cambiano e che ci si deve un po’ spostare per rimanere all’ombra.

Non c’è alternativa a questa ricerca. Buon Primo Maggio.